ScholMaDra: l’Idra di Nato a Kiev, vecchio occidentecentrismo e nuove avventure (continua)

ScholMaDra: l’Idra di Nato a Kiev, vecchio occidentecentrismo e nuove avventure (continua)

Il 16 giugno 2022, a Kiev, “il migliore economista del mondo” ha garantito: “Tutto il mondo è con la Ucraina”. 

A Bratislava, il 3 giugno 2022, al “Foro Globsec 2022” il ministro degli esteri dell’India, Subrahmanyam Jaishankar, rispondeva alla domanda sul perché l’India non smette di acquistare petrolio russo:

“In qualche forma l’Europa deve abbandonare la convinzione che i problemi degli europei sono i problemi del mondo ma i problemi del mondo non sono problemi dell’Europa … Se ci vedessimo come un collettivo, rimasto curiosamente zitto su molte cose che avvengono ad esempio in Asia, converrebbe domandarsi perché qualsiasi asiatico dovrebbe fidarsi dell’Europa … su qualsiasi materia”.

Per evitare equivoci: da oltre tre decenni l’India è un stretto alleato degli USA. Solo che, dopo la decisione europea di armare l’Ucraina e d’imporre sanzioni contro la Russia, ha deciso di non interrompere i legami con Mosca e di incrementare gli acquisti di greggio e di attivi russi.

Nel maggio 2022, essendo a Washington per una conferenza con i segretari statunitensi di Stato, Antony Blinken, e della Difesa, Lloyd Austin, Jaishankar aveva risposto in modo lievemente diverso alla stessa domanda: “Se volete osservare gli acquisti di idrocarburi in Russia vi suggerisco di guardare attentamente l’Europa. Noi acquistiamo il combustibile necessario per la nostra sicurezza energetica. Ma, osservando le cifre, sospetto che i nostri acquisti mensili siano inferiori a ciò che l’Europa acquista in un pomeriggio”.

Con l’Australia, il Giappone e gli USA, l’India compone l’alleanza “Dialogo di Sicurezza Quadrilaterale” (QUAD). Il QUAD, denominata la NATO asiatica, ha come scopo circondare la Cina, ma negli ultimi mesi tutti e tre gli alleati hanno dimostrato scarso interesse ad integrare la campagna contro i cinesi orchestrata da Washington.

Il principale socio commerciale dell’Australia e del Giappone è la Cina, non gli USA. I due paesi hanno formato l’Associazione Economica Integrale Regionale (RCEP), il maggiore blocco commerciale esistente e del quale gli USA sono esclusi.

Il Giappone ha condannato l’attacco russo all’Ucraina ma si è esplicitamente negato a sospendere i suoi investimenti nella Sakhalin Oil and Gas Development Company (Sodeco), nell’omonima isola russa mentre la Banca del Giappone per la Cooperazione Internazionale si associava con la Banca della Cina per lo Sviluppo e con la Banca Cina per l’Export-Import e faceva altrettanto con i russi Gazprombank, Sberbank e VEB per finanziare progetti sul gas russo nella penisola di Guida.

Nel maggio 2022, le elezioni federali dell’Australia sono state vinte dal Partito Laburista che si è impegnato a mantenere un rapporto più razionale di quello del precedente governo conservatore verso la Cina.

Ovvero, non tutte le NATO sono altrettanto ossequiose e obbedienti, e la decisione dei grandi paesi asiatici di continuare il commercio con la Russia ha tolto peso alle sanzioni occidentali. Oggi la Cina importa 800.000 barili di greggio al giorno, l’India 700.000. Acquistare idrocarburi russi a prezzi scontati è un’offerta difficile da rifiutare in un mondo attraversato dai maggiori indici inflazionari degli ultimi 40 anni.

Insomma: la tendenza degli alleati by asiatici degli USA è il non allineamento e in Oriente ci sono mercati più ampi ed economie più floride di quante ci siano nell’Unione Europea.

Lo stesso provano faticosamente a fare persino i paesi del vecchio cortile degli USA, l’America Latina. Basta vedere i risultati del recente “IX Vertice delle Americhe” (Los Angeles, 6-10 giugno 2022).

Per converso, il 17 giugno la russa Gazprom ha comunicato all’italiana ENI che ridurrà le consegne di gas del 50%.

Oltre alla spocchiosa subordinazione, penso che il difetto della linea europea stia nel manico, e cioè nel “occidentecentrismo” che ministri frettolosi definiscono “impegno atlantista”. Perciò mi permetto di concludere facendo alcuni appunti veloci su Eric Hobsbawm, mostro sacro della storia europea,  anzitutto di quella progressista.

Nella sua celebre periodicizzazione Hobsbawm dedica il primo volume alle «rivoluzioni borghesi», ma vola al di sopra delle guerre di liberazione in America Latina durante la decade del 1820, nonostante il forte impatto del 1789 nella regione (Toussaint Louverture e Simón Bolívar furono figli della Rivoluzione francese).

L’America Latina è rimasta sostanzialmente al margine delle guerre mondiali del XX secolo, ma ha conosciuto due grandi rivoluzioni – la messicana (1910-1917) e la cubana (1959) – e la sua era della catastrofe si colloca piuttosto tra i primi Anni ‘70 e la fine degli Anni ‘80, quando il continente è stato dominato da dittature militari non più populiste e sviluppiste ma neoliberiste e terribilmente repressive.

Il secondo volume descrive la guerra civile nordamericana, ma tratta molto superficialmente la rivolta Taiping, il maggiore movimento sociale del XIX secolo, con profonde ripercussioni in Cina tra il 1851 e il 1864.

Il terzo, che restituisce il profilo di un secolo globalizzato, mostra il carattere problematico dell’eurocentrismo o dell’occidentecentrismo, che impregna tutta l’opera.

I confini storici scelti da Hobsbawm non sono affatto generalizzabili.

È legittimo considerare 1789 o 1914 come grandi inflessioni o svolte nella storia dell’Africa?

Penso che il Congresso di Berlino (1884) e gli anni della decolonizzazione (1960) siano segni molto più adeguati.

Viste dall’Asia, le grandi rotture del XX secolo – l’indipendenza dell’India (1947), la Rivoluzione cinese (1949), la guerra di Corea (1950-1953), la guerra del Vietnam (1960-1975) – non coincidono con quelle della storia europea.

La Rivoluzione cinese del 1949 trasformò in profondità le strutture sociali e le condizioni di vita di una parte dell’umanità considerevolmente più vasta di quella europea, ma i decenni compresi tra il 1945 e il 1973 – segnati dalla guerra civile, il «Grande balzo in avanti» e la Rivoluzione Culturale – non furono nessuna «epoca d’oro» per gli abitanti di quell’immenso paese.

Nello stesso periodo, vietnamiti e cambogiani hanno subito bombardamenti più intensi di quelli che hanno devastato l’Europa nella Seconda Guerra Mondiale, i coreani hanno conosciuto gli orrori di una guerra civile e due dittature militari, gli indonesiani hanno subito un colpo di Stato anticomunista di dimensioni letteralmente sterminatrici (500.000 vittime).

Solo il Giappone ha vissuto un’epoca di libertà e prosperità comparabile all’«età d’oro» del mondo occidentale.

Insomma: pur respingendo formalmente ogni atteggiamento accondiscendente ed etnocentrico riguardo i Paesi «arretrati e poveri», la verità è che Hobsbawm  postula la loro subalternità come un’ovvietà che evoca la tesi classica di Friedrich Engels (di origine hegeliana) sui “popoli senza storia”: questi Paesi avrebbero conosciuto una dinamica “derivata, non originale, e la loro storia si ridurrebbe essenzialmente ai tentativi delle loro élite “di imitare il modello del quale l’Occidente è pioniere”, e cioè lo sviluppo industriale e tecnoscientifico, “in una variante capitalista o socialista”.

Incomprensione tutt’altro che nuova per la sinistra europea.

In  una lettera datata Londra, “14 febbraio 1858”, riferendosi alle proteste dell’editore Charles Dana per il “tono pieno di pregiudizio” con il quale aveva scritto un saggio biografico su Simón Bolívar destinato al terzo volume del “New American Cyclopaedia”, Karl Marx scrive a Federico Engels: “Sarebbe stato esagerato presentare Napoleone I come la canaglia più codarda, brutale e miserabile. Bolívar è il vero Soululouque (…) La forza creatrice dei miti, caratteristica della fantasia popolare, ha provato in tutte le epoche la sua efficacia inventando grandi uomini. L’esempio più notevole di questo tipo è, senza dubbio, proprio Simón Bolívar (…) Come la maggior parte dei suoi compatrioti, è incapace di qualsiasi sforzo di lungo respiro”.

Per la cronaca: Soululouque è il personaggio ignorante e superstizioso che nel 1848 istigò lo spaventoso massacro della borghesia mulatta a Port-au-Prince e che, nel 1849, si fece incoronare imperatore con il nome di Faustino I, dilapidando in seguito le sostanze del Paese inscenando una pompa che voleva imitare la corte francese, fino ad essere deposto nel 1859. Confrontandolo con questo personaggio, per Marx Bolívar è un piccolo dittatore opportunista e demagogo.

Non è tutto. Secondo Marx, l’insieme di fatti storici che vedono Bolívar protagonista, dalla costituzione della Gran Colombia all’indipendenza latinoamericana, sono “solo una sommatoria di casualità e fatti gratuiti o positivi (…) La conquista di Nuova Granada non si deve a Bolívar e alle truppe indipendentiste, ma alle truppe straniere, composte fondamentalmente da inglesi” (“Bolívar y Ponte”, The New American Cyclopedia”, New York 1858. Il testo è stato pubblicato in un e-book in italiano da Greenbooks Editore). Sul tema esistono diversi studi, compreso uno del Che Guevara. Per chi voglia approfondire suggerisco Nestor Kohan, “Del Bolívar de Karl Marx al marxismo bolivariano del siglo XXI” (revistamemorias.com, Buenos Aires settembre 2010) e José Aricó, ”Marx y América Latina” (Ediciones Cedep, Lima 1980).

Con meno nobiltà e proprietà, in questi giorni la “Idra ScholMaDra” ripropone la stessa incomprensione, addirittura confinata in uno spazio più piccolo, omogeneo e teoricamente più comprensibile. Le conseguenze di questa lettura, per gli ucraini, per i russi, per tutti, sono e saranno pesantissime. Lo saranno anche per coloro che, in base a qualche miraggio alchemico, confondono Putin con Lenin, il Donbass con i Palazzi d’inverno di San Pietroburgo e una volgare aggressione imperialista con una lotta per la dignità e l’uguaglianza.

Chiudo ritornando ancora al catalano Joan Manuel Serrat perché, per la piccola cronaca, ricordo quando nell’ottobre 1988, come molti altri, sono stato autorizzato a rientrare provvisoriamente in Cile dopo quasi 15 anni di esilio per seguire il plebiscito con cui Pinochet intendeva continuare “legalmente” la sua dittatura.

Ricordo che siamo stati autorizzati ad entrare per qualche giorno quasi tutti, esuli e amici degli esuli, ma non Joan Manuel Serrat che, avendo dedicato la canzone “Algo personal” (Qualcosa di personale) al satrapo Pinochet, dovette fermarsi a Buenos Aires.

“Rodeados de protocolo, comitiva y seguridad, viajan de incógnito en autos blindados. A sembrar calumnias, a mentir con naturalidad, a colgar en las escuelas su retrato. Se gastan más de lo que tienen en coleccionar espías, listas negras y arsenales. Resulta bochornoso verles fanfarronear a ver quién es el que la tiene más grande. Se arman hasta los dientes en el nombre de la paz, juegan con cosas que no tienen repuesto. La culpa es del otro si algo les sale mal. entre esos tipos y yo hay algo personal”.

Circondati dal protocollo, dalla comitiva e dalla sicurezza, viaggiano in incognito in macchine blindate. A seminare calunnie, a mentire con naturalità, ad appendere nelle scuole la loro foto.

Spendono più di quello che hanno collezionando spie, liste nere e arsenali. E’ imbarazzante vedere come se la tirano su chi ce l’ha più duro. Si armano fino ai denti in nome della pace, e giocano con cose per le quali non c’è ricambio. La colpa è dell’altro se qualcosa va male. Tra questi tipi e me, c’è qualcosa di personale”.

La canzone è vecchia. Il tema non direi.

Rodrigo Andrea Rivas

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *