Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani

Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani

Quella che segue è la postfazione che ho scritto per il libro di Eduardo “Mono” Carrasco, curato da Francesco Comina, “Inti-Illimani: storia e mito. Ricordi di un muralista cileno”, edito dalla casa editrice “Il Margine” di Trento. 2010. pdf: Cavalcando ricordi sparsi sulle note degli Inti Illimani

1) Parafrasando Guccini, posso dire che ricordo bene qual era l’epoca dei fatti e qual era il loro mestiere: Roma, fine febbraio 1974, artisti.

Ero appena arrivato a Roma, senza pagare il biglietto, come un pacco postale o, più gentilmente, come un sopravvissuto. Non sapevo bene ancora a cosa e a chi dovessi la mia sopravvivenza. Non lo so ancora, ma ho smesso di domandarmelo da tempo.

2) Ognuno di noi ha tre tipi di memoria.

La prima è documentale, puramente cronologica. Ci permette di ricordare la data delle guerre, delle rivoluzioni e degli onomastici delle persone care. È importante per orientarsi nel tempo, ossia per ricordare quanto siano vecchi i neonati e quanto siamo ancora giovani i vecchi.

La seconda è collettiva e ha a che fare con le risposte sociali radicate nel corpo e nel discorso, ossia con gli imbrogli della vita in comune: come comportarsi in una chiesa, come trattare un anziano, come seppellire i morti… Questo senso comune si materializza in atteggiamenti, riti, cerimonie e istituzioni, ci permette di agire adeguatamente senza bisogno di pensare.

Tuttavia, se non pensare è indispensabile per prendere misure già codificate per una situazione di emergenza – una tormenta o un terremoto – è pericoloso se ci troviamo davanti a tradizioni insensate, come l’ablazione del clitoride o l’esportazione della democrazia, per cui la memoria collettiva, il senso comune, va costantemente rivisto e razionalizzato.

Infine, c’è la memoria individuale sedimentata attorno a costumi e oggetti. A me pare che ciò che segni veramente il nostro carattere sia sommerso nel nostro corpo come un flusso di ripetizioni e cicatrici, di gesti rinnovati con fatica, di lunghe abitudini e angusti frammenti: la strada della scuola, la pioggia inclemente, l’odore iodato del mare, il richiamo del gelataio ambulante, il fruscio dei primi calzoni lunghi, la luce invernale proiettata sul mobile ereditato dal nonno, l’odore della naftalina, le porcellane sopravvissute ad ogni trasloco, il rosso della rosa che ci attirava a una strada popolata da monezza e fumatori…

Questa terza memoria – che in termini linguistici possiamo definire idiosincrasica e meteorologica ovvero creazioni linguistiche costruite senza applicare le norme valide negli ambiti più ampi, come invenzioni dei singoli parlanti che formano parole e strutture sintattiche in base alla propria fantasia, alla loro struttura cognitiva e ai loro umori – può tradursi facilmente persino in cinese, perché si lega ai sensi, perché è patrimonio condiviso e perché, aggiungendo i quattro elementi della natura – fuoco, aria, acqua e terra – è terreno collettivo. Ma non si può tradurre senza uno sforzo introspettivo e linguistico, senza uno sforzo di riscatto di ciò che essendo comune è rinchiuso nel proprio corpo. Sforzo che chiamiamo con diversi nomi come, ad esempio, “poesia”, “musica”, “letteratura”.

3) Tra i paradossi del capitalismo e delle sue tecnologie ancillari c’è la sua potente capacità di erosione dei tre tipi diversi di memoria.

Quella documentale è stata indebolita dalla sua stessa capacità tecnologica di registrazione e archivio: tutte le date, i dati, le statistiche sono ormai immagazzinate su supporti esterni che hanno svuotato le nostre teste nelle quali galleggiano, come il pane tostato nella zuppa, alcuni avvenimenti senza collegamento, isolati dalla storia, resi monumenti dai media che, come Nestlé e Disneyland, producono caramelle, giocattoli e merci.

In un dialogo di Platone, un amanuense egiziano dice a Solone che i greci erano come dei bambini, perché non riuscivano a ricordare nulla oltre tre generazioni, mentre loro, i proprietari della scrittura, potevano risalire, nome a nome e data a data, al passato più remoto. Noi abbiamo la scrittura, ma il capitalismo produce bambini persi in un tempo uniforme, senza limiti né approdi.

4) Oltre alla memoria individuale, è stata danneggiata la memoria collettiva. Parliamo di specie animali scomparse o minacciate da estinzione, ma abbiamo completamente dimenticato i gesti millenari, le cerimonie comuni, le risposte collettive. Possiamo ancora pensare a mestieri morti, a liturgie cerimoniali estinte, a forme di organizzazione politica e a vincoli di solidarietà che sembrano definitivamente disfatti ma, ormai, le risposte automatiche – ovvero quel senso sociale senza pensiero – non derivano dalla tradizione, dall’istituzione o dall’educazione, con i loro vantaggi e rischi, ma dalle multinazionali.

Come superare un lutto? La Roche ha messo in commercio una pastiglia adeguata.

Come seppellire i morti? Le pompe funebri private s’incaricano professionalmente del residuo. Come baciarsi, dove divertirsi, come vestirsi, cosa mangiare, come viaggiare, cosa guardare?

Ci pensano Disneyland, Dolce e Gabbana, Upim, Monsanto, MacDonalds, Sheraton, Franco Rossi…

Solo i poveri, i molto poveri, hanno ancora una biografia. I ceti medi ed i loro imitatori dispongono solo di una raccolta di souvenir o di un catalogo standard di fotografie. La memoria individuale – le ripetizioni e le cicatrici, le abitudini e gli oggetti – è stata sostituita da un universale depliant pubblicitario in cui, sprovvisto di corpo, ogni soggetto è intercambiabile con qualsiasi altro.

Cosa ricordiamo? L’area di servizio dell’autostrada, la finale del mondiale di calcio, il logo della Nike, la pubblicità della Toyota, l’atrio d’ingresso dell’Hotel Plaza, le offerte della Esselunga, l’icona iniziale della Microsoft. Il fatto è che, avendo eliminato i cinque sensi ed i quattro elementi di cui sopra, si è contemporaneamente eliminata la possibilità di una esperienza personale e la possibilità di comunicarla.

5) Di tutto questo, la mia testa aveva sedimentato poco o nulla in quel febbraio 1974. Era un sabato. In un teatro romano di cui non ricordo il nome, c’era in programma un concerto degli Inti. Per i cileni molto poveri come me, circa un centinaio di esuli allora, lo spettacolo era gratuito. Ma il teatro era pieno di italiani paganti che, pur nutrendo grande sfiducia circa le capacità artistiche dei musicisti, esprimevano la loro sofferta solidarietà accompagnandoci.

Invece, il concerto fu memorabile, anche per loro. Perché degli Inti si possono dire molte cose, ma è difficile sostenere che non sappiano suonare.

Risentii la stessa sfiducia molti anni dopo quando, alla fine degli anni ’70, Lucio Dalla cantava: “La musica andina, che noia mortale, sono più di dieci anni che si ripete sempre uguale”. Ma si trattava di un “giudizio estetico”, del tutto legittimo in quanto tale. Era invece assai diverso il giudizio “moral-politico” espresso dal critico musicale milanese de “Il Manifesto” negli anni ’80 quando, a proposito di un altro concerto che non aveva neppure ascoltato (e per assistere al quale questa volta io avevo dovuto pagare), scrisse: “Il pubblico presente era peggio dei musicisti. Continuava a chiedere canzoni stantie come «El pueblo unido jamás será vencido»”.

Tralasciando la politica e la morale, perché – come diceva la mia mamma – “sui gusti non c’è nulla di scritto”, mi limito a corredare cotanta sapienza con un detto popolare cileno: “Se gli stronzi volassero, il cielo sarebbe sempre nuvolo”.

6) Gli Inti attaccano: “Se Juanito Laguna, arriva alla nuvola, è il vento che viene, lo ama e lo tira su … Ah Juanito Laguna, se volasse l’aquilone con la tua fortuna”.

Suonavano chitarre, charango, quena, sikus e zampogne ma la memoria, che ha solo i confini dettati dall’ignoranza e dall’opportunismo, mi riportò, prima, al bandoneon di Astor Piazzola e alle parole di Horacio Ferrer: “Nelle notti, faccia sporca, da angioletto con i jeans, vende rose tra i tavoli, della bettola di Bachín. Se la luna splende sulla griglia, mangia luna e pane di fuliggine. Ogni aurora, nella spazzatura, con un pane e uno spaghetto, si costruisce un aquilone per andarsene, ma è ancora qui!…” Poi, mi rammentò i versi del poeta spagnolo, allora esule a Roma, Rafael Alberti che, meraviglia delle meraviglie, ci aveva fatto visita in albergo e regalato l’ascolto di alcune sue poesie: “Creiamo l’uomo nuovo, cantando. L’uomo nuovo di Spagna, cantando. L’uomo nuovo del mondo, cantando. Canto in questa notte di stelle, in cui sono solo ed esiliato. Ma nella terra non c’è nessuno da solo, se sta cantando. L’albero ha le sue foglie, e se è secco non è più un albero. L’uccello ha le nubi, il vento, e s’è muto non è più un uccello. Il mare ha le sue onde, e il loro canto allegro le navi. Il fuoco ha fiamme e scintille e anche le ombre quando è alto. Nessuno è solitario sulla terra, creiamo l’uomo nuovo cantando”.

7) Essendo molto povero, avevo ancora una biografia che ho cercato in seguito di preservare non senza fatica.

Considero essenziale preservarla anche perché, pur se non sempre è facile accettarlo (almeno non per tutti), mi tocca constatare che in quanto esseri umani condividiamo alcuni tratti distintivi.

Il primo è l’originalità: abbiamo bisogno di senso per vivere. Ma questo bisogno di ricerca non esclude, anzi presuppone, la fedeltà a noi stessi, a ciò che siamo. Detto altrimenti, i sensi che maneggiamo riconoscendoli nostri, sono mossi dall’affetto, non dalla scienza. Per dirla con Ivan Illich: “La convivialità è l’antidoto alla sopraffazione” (“La convivialità”).

Cerchiamo l’originalità ma siamo anche relazione: “Tutto ciò che tocco – scrive Michail Bachtin – a cominciare dal mio stesso nome, perviene alla mia coscienza dal mondo esterno, passando attraverso la bocca degli altri, con la loro intonazione, la loro tonalità emozionale, e i loro valori. Inizialmente non prendo coscienza di me se non attraverso gli altri” (“L’autore e il personaggio nell’attività estetica”). E poi: “L’essere dell’uomo è una comunicazione profonda. Essere significa comunicare. Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non possiede un «territorio» interno sovrano. Egli è integralmente e sempre su una frontiera: guardando dentro di sé, guarda negli occhi altrui, o attraverso gli occhi altrui. Non posso fare a meno dell’altro, non posso divenire me stesso senza l’altro” (“Dostoevskij”).

Infine, originalità e relazione si coniugano col nostro essere futuro, nel senso dell’intrecciarsi dei tempi, e col nostro essere radicalmente vulnerabili. Vulnerabilità che deriva dal fatto che il male non è un’entità metafisica, come vorrebbero la pubblicistica religiosa e quella politica, ma una degenerazione che comporta distruzione del tessuto relazionale in cui siamo immersi.

8) Reazionari e razzisti confondono la realtà con ciò che vedono e ciò che vedono con ciò che pensano di vedere. Probabilmente per questo sono ossessionati dalla necessità di possedere un’idea realista dell’universo, realista quanto la prospettiva senza orizzonte di cui godono cavalli e mucche in campagna.

Per il loro concetto di realtà, questa è la realtà, non una illusione pietrificata che, nei loro cervelli calcinati, acquista le sembianze di una realtà indiscutibile, come lo sono state in altre epoche la convinzione che la terra sia piatta e finisca nelle colonne di Ercole, che immense tartarughe sostengano il mondo, o che le streghe provochino il cattivo tempo per cui bisogna torturarle fino alla morte o bruciarle sul rogo in nome della verità e in difesa della realtà.

Seicento anni fa (1486), la prima parte del “Malleus Maleficarum”, il manuale per i torturatori della Santa inquisizione fatto preparare dal Papa Innocenzo VIII a due frati domenicani, affrontava la discussione sulla natura della stregoneria. Le donne, spiegava, a causa della loro debolezza e a motivo del loro intelletto inferiore, sono per natura predisposte a cedere alle tentazioni di Satana. Poi forniva istruzioni pratiche sulla cattura, il processo, la detenzione e l’eliminazione delle streghe. Affermava, ad esempio, che i pettegolezzi pubblici erano motivo sufficiente per condurre una persona al processo e che, anzi, una difesa troppo vigorosa da parte del difensore era prova del fatto che anche quest’ultimo era stregato.

Infine, essendo un manuale, oltre a fornire indicazioni pratiche per evitare che le autorità subissero la stregoneria e rassicurare i lettori sul fatto che, in quanto rappresentanti di Dio, i giudici erano immuni dai loro poteri, dava ampio spazio all’illustrazione delle tecniche di estorsione delle confessioni e alla pratica della tortura durante gli interrogatori: in particolare all’uso del ferro infuocato per rasare l’intero corpo delle accusate, per trovare il marchio del Diavolo che ne provava la colpevolezza.

Probabilmente, a Guantanamo circolano ancora copie del testo, pur se i torturatori moderni hanno di molto perfezionato le tecnologie dell’orrore.

9) Almeno diecimila anni fa, i mercati erano già il centro della vita dei popoli perché erano il luogo d’incontro dei colori e odori dell’esperienza umana, delle idee e passioni, del denaro e delle preghiere al Supremo, dei dubbi e delle certezze.

Almeno diecimila anni fa, arti e religioni, scienze e idee, lingue e storie erano già scambiati con tappeti e datteri, pelli e perle, sale e peperoncino, coltelli e specchi.

Ora i mercati sono storia silenziosa o rumorosa risorsa dei turisti. Rimane poca cosa di ciò che è stato, magari un’ombra colorata, un rumore.

Ora, i mercati finanziari sono il centro dove muoiono idee e passioni, denaro e preghiera al Supremo, lingue e storie, l’esperienza umana e la sua memoria, il dubbio e la certezza.

Ora, popoli e individui sono legati ai loro terminal informatici. Ora le reti sociali sono i nuovi cimiteri della società. Conviene visitare ogni tanto i cimiteri per ricordare parenti che sono partiti, amici che non ci sono più (quelli che non sono più ciò che sono stati si ritrovano invece nelle banche), ma è triste fermarsi a vivere nel cimitero, privi dell’esperienza umana, della vita di carne e ossa delle antiche città.

Ora, i media piegano la realtà ad una rappresentazione che legittima l’ingiustizia e abitua la popolazione a credere che sia normale parlare, pensare ed agire in base ai canoni prefissati da oscure autorità. La rappresentazione continuamente in onda, tramite una combinazione di bruttezza, aggressività, vouyerismo, narcisismo, volgarità e stupidità, invita lo spettatore a compiacersi dall’immagine infantile e degradata di sé stesso che viene rappresentata.

Per garantirle lunga vita, questa bugia si tramuta in un culto feticista presieduto da Divinità chiamate Mercati che agiscono in Templi denominati Borse. In questo luogo di culto si svolgono funzioni religiose quotidiane alle quali possono partecipare soltanto gli eletti, ma il popolo dei credenti può entrare in comunione con le Divinità attraverso lo schermo della TV, il computer, il giornale, la radio o lo sportello bancario. In questa forma, in ogni angolo del mondo centinaia di milioni di persone, a molte delle quali si nega il diritto a soddisfare i propri bisogni di base, sono invitate a celebrare le funzioni. Nei Paesi ricchi avviene tramite il “servizio pubblico” radiotelevisivo, il quale dedica quotidianamente buona parte della sua programmazione alle rubriche per credenti intitolate al Tempio, con nomignoli del tipo “Questioni di borsa”.

Va da sé: come per ogni credenza, non è importante la condizione di partenza, in questo caso il fatto che la schiacciante maggioranza dei credenti/ascoltatori non disponga nemmeno di un’azione. Ciò che conta davvero è la speranza, in questo caso quella di “diventare come loro”. Essendo questa una speranza infondata, il nocciolo della credenza è curato particolarmente. Ad esempio, poiché le funzioni avvengono nella lingua degli eletti, è necessaria una caterva di giornalisti ed esperti incaricati di tradurre alla ciurma i messaggi delle Divinità, per aiutarla a carpirne segnali, umori e sanzioni.

10) Tramite i media, ora, più che mai le idee della classe dominante sono le idee dominanti della società. Grazie ai media, ora, più che mai la classe che esercita il potere materiale dominante è, contemporaneamente, il potere intellettuale dominante. L’azione mediatrice dei media fa apparire normale, comunque inevitabile, che le classi dominanti aumentino i loro profitti sempre, persino con le crisi, e che tutti gli altri – anche questo “è normale” – debbano arrangiarsi alla meno peggio.

Eppure, ad essere nuovi sono i mezzi adoperati, non le idee, piuttosto vecchiotte se già Molière recitava in “L’avaro” (1668): “Sono capaci tutti a fare un buon pranzo con molti soldi! Il difficile è far bene con poco: è lì che si vede la bravura di un cuoco”. I ritrovati tecnici, gli schermi più nitidi, il digitale terrestre e mille altre diavolerie, utili e inutili, servono a nascondere la decrepitudine dei discorsi, ma non solo. Servono, anche, per evitare eventuali reazioni. C’è sempre il rischio che si augurava invece Émile Zola concludendo “Germinale” (1888): “Dopo avere atteso nei solchi il momento propizio, ora si preparavano a spuntare in vista di futuri raccolti e tale lavorio di germinazione, producendo un nero esercito vendicatore, presto avrebbe fatto esplodere la terra”.

11) La storia, i popoli, la propaganda di massa hanno glorificato la guerra, onorato i loro soldati, venerato i loro eroi, premiato i loro amministratori, ringraziato i loro inventori, scusato, protetto, perdonato i promotori di crimini di massa quando non hanno avuto successo né sono stati completamente sconfitti, innalzato il pragmatismo dei governanti che hanno avuto successo nel perpetuare i peggiori crimini contro l’umanità in nome di qualche causa nobile tipo Dio, patria, libertà o diritto alla difesa dopo che i nemici hanno osato esercitare il loro diritto alla autodifesa. Tuttavia, diceva Pablo Neruda, “potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera” o, cantava Bob Marley, “si possono ingannare alcuni talvolta, ma non si possono ingannare tutti sempre”.

12) A metà degli anni ’60 Violeta Parra cantava (“Al centro de la injusticia”). “Cile confina a nord con il Perù. E con il Cabo de Hornos confina a sud. S’innalza ad oriente la cordigliera. E ad ovest brilla il lungomare… Ma, in mezzo alla Alameda de las delicias” (nome della principale strada coloniale di Santiago e attuale asse viario centrale della città), Cile confina col centro dell’ingiustizia”. E in “Me gustan los estudiantes”: “Mi piacciono gli studenti, giardino delle allegrie. Sono uccelli che non impauriscono gli animali o la polizia. E non s’impauriscono con le pallottole né il latrato della canea. Evviva l’astronomia”.

Verso la fine del 1969, Victor Jara, fondatore degli Inti Illimani, cantava ne “La preghiera del contadino” (“La plegaria del labrador”): “Alzati, e guarda la montagna. Da dove arrivano il vento, il sole e l’acqua. Tu, che conosci il corso dei fiumi. Tu, che hai seminato il volo della tua anima. Alzati, e guardati le mani. Per crescere, uniscila al tuo fratello. Insieme andremo, uniti nel sangue. Oggi è il tempo che può essere domani. Liberaci da quel che ci domina nella miseria. Donaci il tuo regno di giustizia, e di uguaglianza. Soffia come il vento il fiore del crepaccio, fischia come il fuoco la canna del mio fucile. Si faccia infine la tua volontà qui, sulla terra. Dacci la tua forza e il tuo valore per combattere”.

Mentre cantavamo la sua allegra traduzione di “If i had a hammer” di Pete Seeger: “Se avessi un martello, colpirei al mattino, colpirei nel pomeriggio per tutto il paese. Martello di giustizia, campana di libertà, e una canzone da amore”, Victor chiudeva quegli anni con “Ti ricordo Amanda” (“Te recuerdo Amanda”): “Ti ricordo Amanda, la strada bagnata, mentre camminavi, a trovare Manuel. Il sorriso largo, la pioggia nei cappelli, non importava nulla, andavi a trovare lui. Che partì alla serra, che mai fece del danno, che partì alla serra. E in cinque minuti, fu fatto a pezzi. Suona la sirena, di ritorno al lavoro, molti non ritornarono, nemmeno Manuel”.

Il richiamo internazionalista, Manuel e la serra non si trovavano in Cile ma molto probabilmente in Bolivia, indicava la fine dei nostri anni ’60.

Per noi era un periodo felice, ma non spensierato: il Cile aveva la possibilità di scegliere, per la prima volta, un presidente rivoluzionario. Il cielo sembrava alla nostra portata. Era nata Unidad Popular. Io votavo per la prima volta e il mio candidato si chiamava Salvador Allende. Gli Inti cantavano: “Perché questa volta non si tratta, di cambiare un presidente. Sarà il popolo a costruire un Cile ben diverso”.

13) La sera del 4 settembre 1970, la notte elettorale, a vittoria ormai indiscutibile, dalla finestra della Federazione di Studenti del Cile (FECH), Allende diceva: “Sono soltanto un uomo, con tutte le debolezze di un uomo, e senza superbia né spirito vendicativo, accetto questa vittoria che nulla ha di personale, che devo all’unità dei partiti popolari, alle forze sociali che ci hanno accompagnato, all’uomo anonimo e sacrificato, alla umile donna della nostra terra… La vostra vittoria ha un profondo significato nazionale. Perciò dichiaro solennemente che rispetterò i diritti di tutti i cileni ma, anche, che essendo il popolo governo da quando entreremo nella Moneda, rispetteremo l’impegno storico che abbiamo: trasformare in realtà il programma di Unidad Popular…

Ho detto e ripeto: se la vittoria non era facile, più difficile ancora sarà consolidarla e costruire la nuova società, la nuova convivenza sociale, la nuova morale e la nuova patria. Ma so che voi, che avete reso possibile che il popolo sia domani governo, avete la responsabilità storica per realizzare ciò che il Cile vuole: trasformare la nostra patria in un paese che si distingue per il progresso, la giustizia sociale, i diritti di ogni uomo, di ogni donna e di ogni giovane.

Abbiamo vinto per rovesciare definitivamente lo sfruttamento imperialista, mettere fine ai monopoli, realizzare una profonda riforma agraria, controllare il commercio estero, nazionalizzare il credito, pilastri del progresso del Cile che permetteranno di creare il capitale sociale necessario al nostro sviluppo.

Per ciò, in questa notte che appartiene alla Storia… ribadisco l’impegno preso con tutti voi e con la mia coscienza: essere autenticamente leale nel grande compito comune e collettivo che ci siamo assunti. Io, come già detto, voglio essere soltanto il vostro Compagno presidente.

Cile apre una strada che altri popoli di America e del mondo potranno seguire. La forza vitale dell’unità romperà la diga della dittatura e aprirà la via perché i popoli possano essere liberi e possano costruire il loro destino. Siamo responsabili sufficientemente per capire che ogni paese e ogni nazione ha i suoi propri problemi, la sua propria storia e la sua propria realtà e che, davanti a quella realtà saranno loro ad adeguare la tattica da adottare. Noi vogliamo solo avere i migliori rapporti politici, culturali, economici, con tutti. Chiediamo soltanto che rispettino – dovrà essere così – il diritto del Cile a darsi il governo di Unidad Popular.

Siamo e saremo rispettosi dell’autodeterminazione e della non interferenza, ma ciò non significherà zittire la nostra adesione solidale verso i popoli che lottano per la loro indipendenza economica e per rendere degna la vita degli uomini e donne. Voglio solo segnalare il fatto trascendentale che avete realizzato, sconfiggendo la superbia del denaro, le pressioni e minacce, l’informazione deformata, la campagna del terrore, l’insidia e la malvagità”.

14) A Washington, il presidente Nixon rispondeva a stretto giro di posta: “Dobbiamo liberarci di quel figlio di puttana. Voglio che i nostri agenti migliori si dedichino a tempo pieno ad elaborare un piano. A questo scopo, mettiamo a disposizione immediatamente 10 milioni di dollari, pronti ad aumentarli non appena sarà necessario. Cominciamo con strozzare l’economia del paese”.

Il suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, commentava: “Non vedo perché dovremmo rimanere con le braccia incrociate se un paese decide di diventare comunista per l’irresponsabilità dei suoi abitanti”.

L’ambasciatore a Santiago, John Korry, ammoniva: “Signor Frei: da presidente del Cile deve sapere che, se Lei permetterà che Allende assuma il governo, noi faremo in modo che in questo Paese non arrivi nemmeno una vite, neppure un bullone. Non deve farsi alcuna illusione a questo riguardo, perché noi faremo tutto quanto sia necessario per condannare il Cile ed i cileni alle più dure privazioni, alla peggiore miseria”.

Poche settimane dopo, un commando della destra estrema (“Patria e Libertà”) assassinava il comandante in capo dall’esercito per provocare un colpo di Stato. Iniziava così una ripetuta processione ai cimiteri per accompagnare i nostri morti.

15) Come scrive Naomi Klein (“Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”), la minaccia rappresentata da Allende non aveva nulla da spartire con quanto Washington sosteneva pubblicamente (era troppo vicino all’URSS, era un falso democratico che avrebbe trasformato il Cile in un Paese totalitario). La vera minaccia era il rischio di diffusione della democrazia sociale: “L’URSS era l’uomo nero necessario. Era facile odiare Stalin, ma ciò che rappresentò sempre la vera minaccia, era l’idea del socialismo democratico”.

Ancora oggi credo che il migliore commento ai disegni sinistri di Washington sia sempre una poesia. La scrisse lo spagnolo León Felipe nel Messico, il Paese che l’aveva adottato come esule dopo la Guerra civile (Sé todos los cuentos”):

“Io non so molte cose, è vero. Dico soltanto ciò che ho visto. E ho visto: Che la culla dell’uomo la dondolano con storie. Che le urla d’angoscia dell’uomo le affogano con storie. Che il pianto dell’uomo lo tamponano con storie. Che le ossa dell’uomo le interrano con storie. E che la paura dell’uomo ha inventato tutte le storie. Io non so molte cose è vero. Ma mi hanno addormentato con tutte le storie. E conosco tutte le storie.”

Gli Inti cantano versi di Neruda (“Ya parte el galgo terribile”): “Già parte il levriero terribile a uccidere bimbi mori. Già parte la cavalcata, la canea si scatena, sterminando cileni, ah cosa faremo. Con il fucile in mano, sparano al messicano, e uccidono il panamense a metà del suo sogno. Già parte la cavalcata, ah cosa faremo, sterminando cileni, ah cosa faremo”.

16) Nel 1971, Victor Jara descrive la nuova situazione in “Vientos del pueblo” (“Venti del popolo”): “Ancora una volta, vogliono macchiare la mia terra con sangue operaio, quelli che parlano di libertà, ma hanno le mani nere, quelli che vogliono dividere la madre dei suoi figli, e vogliono ricostruire la croce che si è tirato indietro Cristo… Ora voglio vivere, accanto a mio figlio e a mio fratello, la primavera che tutti, costruiamo giorno dopo giorno. Non mi spaventa la minaccia, padroni della miseria. La stella della speranza continuerà ad essere nostra. Venti del popolo mi chiamano, venti del popolo mi portano, mi cospargono il cuore e mi sventano la gola. Così canterà il poeta, mentre l’anima mi suoni, per le strade del popolo, da adesso e per sempre”.

Pablo Neruda recitava il suo “Canto para Bolívar”: “Ho conosciuto Bolívar in un mattino lungo. A Madrid, nella bocca del Quinto reggimento. Padre, gli dissi, sei o non sei o chi sei? E guardando la Caserma della Montagna disse: Mi sveglio ogni cent’anni, quando si sveglia il popolo”.

17) Estate 1975: torno dalla mia prima volta in Grecia. Appena sbarcato a Brindisi, entro in un supermercato. Suonano “Alturas”, un brano movimentato e malinconico composto da Horacio Salinas, con un arpeggio di distacco tra le strofe con gli strumenti a corda e tra le tre strofe con i sikus. Mi sembra di volare e cerco di capire se gli altri presenti sentono qualcosa. Scimmiottò Battista: “Ma che colore ha, una giornata uggiosa? Ma che sapore ha, una vita mal spesa?”. Mi sento a casa. Le realtà multiculturali non garantiscono alcuna convivenza tra popoli e culture diverse che coabitano nello stesso spazio sociale ma quel brano, in quel luogo, mi fece pensare che convivevo, non coesistevo. Certo, non era ancora arrivato il tempo delle migrazioni di massa né, tanto meno, quello della Lega Lombarda.

18) A Santiago Violeta ci aveva cantato (“Mazúrquica modérnica”): “Mi hanno chiesto diverse persone se pericolose per le masse sono le canzoni politiche, ah che domanda tanto infantile. Ho risposto al curioso, quando la pancia chiede cibo, fa diventare il cristiano fermo e guerriero per i suoi fagioli e le sue cipolle. Non c’è esercito che li fermi, se hanno fame i popolari”.

A Buenos Aires l’argentino Atahualpa Yupanqui (“El arriero va”) raccontava: “Le pene e le mucche, se ne vanno per la stessa mulattiera. Le pene sono nostre, le mucche sono degli altri”.

A Montevideo l’uruguaiano Daniel Viglietti (“Canto a mi América”) esortava: “Dagli la tua mano all’indio, dagliela che ti farà bene. Troverai la strada, come ieri l’ho trovata io”.

A L’Avana il cubano Silvio Rodríguez (“Pequeña serenata diurna”) descriveva: “Vivo in un paese libero, quale può essere soltanto libero, su questa terra, in questo istante. E sono felice perché sono un gigante”.

19) Dopo sono arrivati anni molto duri per i latinoamericani. Il dominio indiscusso dei cavernicoli si allargò a tutto il continente per quasi vent’anni, tra militari e neoliberisti (la prima incrinatura arrivò solo nel febbraio 1989, con il caracazo).  In quegli anni, tra il 20 e il 45% dei beni posseduti dai latinoamericani, ivi inclusi i servizi essenziali, sono stati loro espropriati dalle multinazionali e dalla speculazione finanziaria.

Il dominio neoliberista, che oggi rinverdisce in Europa, confermava in pieno quanto aveva scritto nel 1942, Walter Benjamin (“Sul concetto di storia”, “Tesi IX”): “C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, ridestare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle materie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso è questa bufera”.

Pressoché unanimemente, anche la “catena d’avvenimenti” del pensiero progressista è stata dominata a lungo dall’idea del progresso continuo. Viceversa, quella dell’angelo s’incentra sullo sguardo delle vittime (i perseguitati, i vinti, i poveri, gli impoveriti), che vedono una “unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie”. Per le vittime, per coloro che subiscono giorno dopo giorno la mancanza di protezione e di diritti umani e, contemporaneamente, sono sottoposti alla legge (sotto il capitalismo, alla legge del valore), il progresso è stato sempre e solo un nome. Loro sono state e sono sempre vittime, possono essere colpiti in qualsiasi istante dall’ingiustizia e dalla barbarie tramite la sottomissione al potere e alle condizioni d’oppressione che questo genera (ad esempio, tramite leggi razziste ed eccezionali).

In questo senso, l’ingiustizia e la barbarie sono la condizione normale di vita degli oppressi, sia come barbarie politica (la mancanza di democrazia), sia come barbarie economica (povertà e impoverimento). Per gli oppressi, lo stato d’eccezione era e continua ad essere la regola: vivono permanentemente sotto l’ingiustizia e la barbarie che, per loro, non sono affatto eccezionali. La vera novità dei giorni nostri è che, in questa marcia del gambero verso il Medioevo, il teatro dell’oppressione tende ad allargarsi. Ma questa è un’altra storia e non è questa la sede per affrontarla.

20) “Non c’è male che duri cent’anni, né corpo che li resista”. Nell’ottobre 1988 riesco a rientrare in Cile. Si vota il referendum sulla permanenza di Pinochet al governo e il dittatore autorizza quasi tutti i fuoriusciti a rientrare temporaneamente. Ci vado da giornalista italiano. Giro un po’ il paese. A Valparaíso ritrovo gli Inti Illimani: cantano in piazza, canzoni vecchie e nuove, che legano la memoria al “NO” gigante come una casa che, moltiplicato per milioni, può mandare a ramengo la dittatura. La sera della vittoria pensavamo di fare festa, ma riparte la repressione. Trascorre la notte popolata da rumori di un nuovo colpo di Stato, mentre l’esercito ed i carabinieri riempiono di nuovo le strade picchiando a piacere qualsiasi malcapitato/a. Alla fine il dittatore deve arrendersi: contro ogni previsione, i cileni hanno vinto.

Alle 9,03 del mattino del 11 settembre 1973, un paio di ore prima di morire, Allende ci aveva detto: “Ho la certezza che il seme che abbiamo consegnato alla coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni, non potrà essere tagliato definitivamente. Hanno la forza, potranno schiacciarci, ma non si arrestano i processi sociali né con il crimine né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli… Lavoratori della mia patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende d’imporsi. Continuate voi, sapendo che molto prima che tardi, si apriranno di nuovo le grandi strade dove circola l’uomo libero, per costruire una società migliore”.

La sera del 6 ottobre 1988 celebravamo la vittoria nel centro di Santiago, vestiti da paura, chitarre e tamburi, agghindati con la musica ed i testi degli Inti, Victor, Violeta, Neruda… La profezia si era avverata: le grandi strade si riaprivano al passaggio delle donne e degli uomini liberi.

21) Dopo un intervallo lungo un anno, contrassegnato dalle trattative per garantire la prosecuzione della politica economica della dittatura e l’impunità dei criminali, alla fine del 1989 iniziava l’epoca della Concertación o del neoliberismo in salsa democratica. Anche questa è un’altra storia.

Da allora, la musica cilena è cambiata, molti amici se ne sono andati, ma gli Inti sono rimasti nella memoria e nello strimpellare di vecchie e nuove generazioni.

Li ho visti, l’ultima volta, nel novembre del 2008 a Santiago. Eravamo una folla immensa, allo Stadio nazionale, non lontano dal luogo dove migliaia di persone erano state torturate e molte uccise, e dove l’Italia aveva vinto la Coppa Davis maschile nel 1974. Ci eravamo convocati per commemorare i cent’anni di Salvador Allende. Il ritratto del “compagno presidente” dominava lo scenario.

Apriva la commemorazione un vecchio e caro pianista, Valentín Trujillo, con “Gracias a la vida”, di Violeta. Cantavamo: “Grazie alla vita, che mi ha dato tanto, mi ha dato il suono e l’alfabeto. Con loro distinguo, la gioia dalla pena, i due materiali che conformano il mio canto. E il canto vostro che è lo stesso canto. E il canto di tutti che è il mio canto”. Poco dopo comparivano i vecchi Inti, questa volta con il cognome “storico”. E con loro abbiamo intonato, tutti insieme: “In piedi, cantiamo, che andiamo a vincere. Avanzano, ormai, bandiere di unità. E tu verrai, marciando accanto a me. Così, vedrai, il tuo canto e la tua bandiera fiorire alla luce di una nuova alba, che preannuncia la vita che arriverà. In piedi, cantiamo, il popolo vincerà. Sarà meglio, la vita che arriverà. A conquistare la nostra felicità, e in un clamore mille voci di lotta si alzeranno, diranno canzone di libertà, con decisione la patria vincerà. E ora il popolo, che avanza nella lotta, con voce da gigante urlando «Avanti, il popolo unito non sarà mai vinto»”.

Così, come recitava l’uruguaiano Mario Benedetti, scoprivamo ancora una volta che “nelle strada, gomito a gomito, siamo molto più di due”.

Per quanto mi riguarda, il miracolo dell’unificazione della memoria tra generazioni separate fisicamente, era stato saldato. Dopo avermi dato sostegno e compagnia in Europa, gli Inti segnavano anche il mio ritorno affettivo, quasi 40 anni dopo, durante i quali mi hanno aiutato a salvaguardare la memoria e la speranza. Il collettivo canto liberatore apriva una speranza fondata che, come canta l’argentino Piero (“El jardín de los sueños”), “è pazza, e non domanda. Compare tra le lune ed i tempi, va via. Si perde e ricompare tante volte, che nessuno sa come fa a crescerci dentro”.

Mi spiace per Bennato (anche se credo che sia d’accordo al di la degli artifici cantautoriali): non sono solo canzonette. Almeno, non lo sono tutte. Almeno, non lo sono sempre. Almeno, non lo sono per tutti.

Rodrigo Andrea Rivas

Città di Castello, giugno 2010

Rodrigo Andrea Rivas

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