Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (II)

Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (II)

Storie, poco edificanti, di ubriaconi e adoratori di serpenti

“Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa.
“Si avvicina un poliziotto e gli chiede cosa ha perduto.
«La mia chiave» risponde l’uomo e si mettono a cercare tutti e due.
Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì.
L’altro risponde: «No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio»
Assurdo? Se è così che pensate, state cercando anche voi nel luogo sbagliato.
Perché il vantaggio, in questo caso, è che tale ricerca non porta a niente, se non «ancora allo stesso» cioè al niente… L’aspirante all’infelicità si deve attenere a due semplici regole.
Primo: esiste un’unica soluzione possibile, consentita, ragionevole, sensata e logica di un problema, e se questi sforzi non hanno ancora avuto successo, questo prova soltanto che non ci si è ancora sufficientemente applicati ad essa.
Secondo: la supposizione che esista solo quest’unica soluzione non può mai in quanto tale essere messa in discussione, prove di verifica possono essere fatte solo relativamente alla sua applicazione”.

 Paul Wastlawick, “Istruzioni per rendersi infelici”, Feltrinelli, Milano 1997

Rimando un approfondimento sull’ideologia neoliberista, ideologia condivisa dalla stragrande maggioranza dello spettro politico italiano (a destra e a sinistra).

Pur senza trattarla, non penso correre il rischio di essere smentito affermando che, oggi, in Italia, ma anche in Europa e nel mondo, i maggiori problemi delle classi popolari hanno due cause comuni (ambedue figlie del neoliberismo): il forte deterioramento dei mercati del lavoro e le misure di austerità imposte progressivamente alle popolazioni attraverso il taglio della spesa pubblica, sia per trasferimenti – e.g. pensioni – sia per servizi che compongono lo Stato sociale – e.g. sanità, educazione, servizi sociali, casa, ecc. – realizzati dallo Stato nelle sue diverse articolazioni (Stato centrale, Regioni, Comuni). Tralascio pure, sempre per ora, il ruolo spesso determinante dei “mentori ideologici”: l’FMI, la Banca Mondiale, la OCSE, la BCE, la Commissione Europea, ecc. Anche qui, tuttavia, ci vuole una piccola precisazione: “Ciò che vuole l’Europa”, ad esempio l’austerità, “è ciò che vogliono i governi europei”. Ciò che l’FMI “raccomanda” (ad esempio, ora “suggerisce” di usare i soldi dell’anemica ripresa per garantire la solidità delle banche, ossia per regalare anche questi soldi ai banchieri). Ciò che la Banca mondiale “garantisce” (non garantiremo gli investimenti in Iran, ad esempio), è ciò che ha chiesto la Nato. Il “dovete garantire la continuità delle riforme” (s’intende quelle renziane) proferito a ripetizione dall’OCSE, la Commissione Europea, la BCE, serve allo stesso gioco.

Per maggiori problemi ne intendo, e so di adoperare una espressione molto tenera, almeno sette: l’alto tasso di disoccupazione, il basso tasso di occupazione, il calo della protezione sociale, il crollo dei salari, l’aumento della precarietà, il deterioramento dei servizi pubblici e la diminuzione del potere d’acquisto delle pensioni.

Volendo continuare ad esercitare la mia voglia di tenerezza idiomatica, constato che oggi, in Italia, (ma non si tratta affatto di un caso unico), degli “analisti improvvisati” fanno a gara per provare a convincere la popolazione che il loro problema sia scegliere tra Di Maio e Salvini.

Allo stato dell’arte sappiamo che questa “singolare e donchisciottesca tenzone”, un torneo medioevale, potrebbe avere una seconda edizione presto.

Visto che diversi Paesi sono vissuti anche meglio di quanto facessero con questi orribili governi, non osano neppure affermare con convinzione, per ora, che i signori mercato ed i loro fratelli, frau spread e madame la marquise, caleranno sulla penisola come cavallette affamate (lo faranno se ci sarà da guadagnare). Provano a convincere la popolazione, ma per ora riescono a terrorizzare solo qualche eletto del popolo che preferirebbe non doversi far rieleggere troppo presto. Da parte mia, scopiazzando Neruda, mi limito ad osservare che sebbene lor signori possano recidere tutti i fiori, non potranno mai impedire l’arrivo della primavera.

Meno metaforicamente, oltre allo spettacolo innalzato a verità grazie alla potenza del capitale, ci sono i dati. La prima caratteristica dei dati è che possono dimostrare la realtà costituendo evidenza scientifica. Oggi, i dati dimostrano, al di la di ogni ragionevole dubbio, che è in corso un duro attacco contro la democrazia e contro il benessere dei cittadini da diversi decenni.

Dimostrano che gli attaccanti non sono i draghi oscuri rievocati dal para-teologico termine “i mercati”, ma “i signori mercati” hanno nomi e cognomi, e sono facilmente identificabili, perché molto pochi (alla fine del 2016, tutti quelli che possiedono oltre metà del mondo potevano stare in un autobus).

Fuor di metafora, essendo l’economia materia d’indottrinamento e potendo avere gambe corte le bugie, i fatti e la cronaca ci dicono che è stato perfezionato un Culto feticista presieduto da Divinità chiamate Mercati che agiscono in Templi denominati Borse. Per celebrare questo Culto si svolgono Funzioni religiose quotidiane, in diretta nei giorni feriali e tramite informatica nei giorni festivi e di notte. Il pubblico partecipante alle Funzioni è formato da Eletti, che chiamano sé stessi – probabilmente per innata modestia – Operatori finanziari, ma ciò non toglie all’intero Popolo dei credenti la possibilità di entrare in comunione con le Divinità tramite lo schermo della TV, il computer, il giornale, la radio, gli SMS, l’IPOD o lo sportello bancario. In ogni angolo del mondo, centinaia di milioni di persone, a molte delle quali si nega il diritto a soddisfare i propri bisogni di base, vengono invitate a celebrare le Funzioni. Nei Paesi arricchiti il nocciolo della Cerimonia è trasmesso dal “Servizio pubblico” radiotelevisivo, che dedica parte della sua programmazione quotidiana a rubriche per credenti intitolate al Tempio, battezzate con nomignoli poco immaginativi ma volutamente accattivanti tipo “Questioni di borsa”, “Gli affari”, “I conti in tasca”, “I vostri affari”.

Come avviene per ogni credenza, la condizione di partenza, in questo caso il fatto che la schiacciante maggioranza dei Credenti/Ascoltatori non disponga nemmeno di un’azione, è del tutto irrilevante. Ciò che conta è il Miraggio: “Entrare a far parte della banda dei vincenti”, “Diventare come loro”, “Arricchirsi in 5 puntate”. Il Miraggio, l’osso della credenza, la semplice proposizione considerata vera in modo diffuso, si cura particolarmente. Perciò, poiché le Funzioni avvengono nell’arido linguaggio degli Eletti, diventa necessario reclutare Giornalisti, Esperti e Parolieri per tradurre alla ciurma i messaggi della Divinità facendole capire i suoi Segnali, Umori e Minacce.

Come direbbe Gaber, “facendo finta di essere sani” Giornalisti, Esperti e Parolieri si prendono molto sul serio.

Eppure, l’economista statunitense J. K. Galbraith, già consigliere economico dei presidenti Roosevelt, Kennedy e Clinton, ha sentenziato: “La sola funzione di queste previsioni è rendere persino l’astrologia un po’ più rispettabile[1]”. Liberale miscredente!

Come in qualsiasi epoca storica, il pensiero economico dominante è quello delle classi dominanti. La differenza, caso mai, è che Di Maio/Salvini e altri personaggi minori, ma ora curiosamente sempre bifronti – solo per ricordarne alcuni oggi à la page: psiconano/Meloni, Renzi/Martina – non amano presentarsi per quel che sono, “cavalieri del pensiero economico dominante” o, meno enfaticamente, traduttori/interpreti di tale pensiero (a proposito, mi assale un dubbio mentre scrivo: non sarà, forse proprio perché si considerano interpreti, che come Mariano Apicella, tale e quale un banale “ambasciatore non porta pena”, pensano di avere acquisito l’impunità permanente?).

Per dirla con Guy Debord, “nel mondo realmente capovolto il vero è un momento del falso”. Continuiamo citandolo: “Lo spettacolo è l’apparenza socialmente organizzata”, “si presenta come accettazione passiva del monopolio delle apparenze”, “un discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo”, “il suo carattere tautologico deriva da tre fatti: i suoi mezzi sono contemporaneamente il suo scopo, ricopre tutta la superficie del mondo, poggia sull’impero della passività”. Insomma, “lo spettacolo dell’economia è un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”, “la principale produzione della società attuale”. Rappresenta “la sottomissione degli esseri già sottomessi totalmente all’economia capitalistica che si sviluppa da sola”, “più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”[2].
Quasi contemporaneo di Debord, Franz Fanon ci aveva ammonito: “Non ci si deve giudicare con il metro dei nemici”[3].
Sessant’anni dopo, il geografo David Harvey la legge così:

“Il capitale sopravvive in parte per accelerare. E, quindi, ci sarà un’accelerazione riguardo la velocità di trasformazione delle cose.
Ma, come si accelera il consumo? Se ti dedichi a consumare cose che durano cinquanta o cento anni, come i coltelli e le forchette di mia nonna, è una cosa. Ma perché consumiamo lo spettacolo istantaneamente, il capitale circola sempre di più proprio tramite la produzione di spettacolo […]. Penso che il sogno della Silicon Valley sia darci a tutti un reddito di base universale, perché possiamo restare seduti su un divano a farci scorpacciate di Netflix. E quella sarebbe la nostra vita”[4].

Stiamo schisci e lasciamo tirare qualche conclusione provvisoria ai poeti. La parola, quindi, a George Orwell, León Felipe e Milan Kundera.

Orwell scrive: “Il linguaggio politico è concepito in modo da far sembrare vere le bugie e rispettabile l’omicidio, e per dare parvenza di solidità all’aria”. “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”. “Tutto svaniva nella nebbia. Il passato veniva cancellato, la cancellazione dimenticata, e la menzogna diventava verità”. “Tutta la propaganda è bugiarda, anche quando dice la verità”. E, provate a risentirne gli echi anche ora, magari quando parla Trump: “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”.[5]

León Felipe: “Io non so molte cose, è vero. / Dico soltanto ciò che ho visto. / E ho visto: / Che la culla dell’uomo la dondolano con storie. / Che le urla d’angoscia dell’uomo le affogano con storie. / Che il pianto dell’uomo lo tamponano con storie. / Che le ossa dell’uomo le interrano con storie. / E che la paura dell’uomo ha inventato tutte le storie. / Io non so molte cose, è vero. / Ma mi hanno addormentato con tutte le storie. / E conosco tutte le storie”[6].

E Milan Kundera: “La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”. “La nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a sé stessa, alla propria emozione”[7].

Mia modesta conclusione parziale: chi, sapendo leggere e scrivere, agogna i bei tempi andati per non lottare contro il potere, dimentica o fa finta di dimenticare che, fino a metà del XX secolo, la crescita non è arrivata da fenomeni interni ma dal colonialismo – che ha allargato i confini del capitalismo – e dallo sfruttamento dei colonizzati; che si è sempre fondata sull’universale emarginazione delle donne e sullo sfruttamento irrazionale dei beni comuni; che non esistendo ormai residui non capitalistici nel mondo, oggi l’aumento della domanda deve essere creato dai lavoratori e dai capitalisti; che i lavoratori non possono farlo perché i loro redditi non aumentano e, quindi, per aumentare la domanda rimangono soltanto i capitalisti.

Ergo, questa può essere solo asfittica.

Eppure, i portatori di catene non amano vedersele addosso. Oggi sembra abbiano voluto convincersi che le loro sfortune siano da addebitare al destino cinico e baro portato da un gommone, da un robot, da un raffreddore di stagione, dalle ribellioni delle donne e dei colonizzati o dai difetti dell’ultima versione del Ipad.

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[1]  Citato da “Panorama”, Roma 7 maggio 2009. Comunque, lo Stato italiano approfondisce con una pubblicità ritmata sulla canzone di Totò Cutugno “L’italiano”: “Vorrei una vigna per produrci il vino; io sogno un parco per il mio bambino; di un grande film sarò il produttore; voglio champagne ghiacciato a tutte le ore. Darò ai miei figli un futuro splendente; della mia squadra farò il presidente; con un sistema in ricevitoria, si sistema la mia compagnia. Un milione a Giulio, un milione a Maria, voglio fondare la mia scuderia, faccio una follia, ti prendo e ti porto via. Lasciatemi sognare, con la schedina in mano. Lasciatemi sognare, sono un italiano.“

[2]  Guy Debord, La società dello spettacolo”, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2001

[3]  Franz Fanon, “I dannati della terra”, Einaudi, Torino 2007. La prima edizione è del 1961. Da leggere attentamente la celeberrima prefazione di Jean Paul sartre.

[4] Consultabile in https://theintercept.com/2018/01/21/marxist-scholar-david-harvey-on-trump-wall-street-and-debt-peonage/

[5] George Orwell, “1984”, Secker and Warburg, Londra 1949.

[6] Leon Felipe, “Sé todos los cuentos”, in “Poesías escogidas de la lengua castellana”, Pérez del Hoyo J. Editor, Madrid 1970.

[7] La prima citazione è da “Il libro del riso e dell’oblio”, Adelphi, Milano 1991. La seconda da “L’ignoranza”, Adelphi, Milano 2001.

Rodrigo Andrea Rivas

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