Parole contro la pace

Erich Mühsam era un poeta ebreo tedesco vittima dal nazismo. Nel 1933 venne arrestato e incarcerato. Per esercitarsi – eravamo solo agli inizi del nazionalsocialismo e il loro allenamento era, ancora, fondamentalmente teorico – i suoi torturatori decisero di immettere nella sua cella uno scimpanzé che avevano rubato dal laboratorio di uno scienziato, anche lui ebreo, anche lui agli arresti.
Come parte del loro allenamento pratico, e per poter esercitarsi nella malvagità, i soldati nazisti si aspettavano che la scimmia aggredisse Mühsam il quale, secondo gli storici, era in condizioni fisiche estremamente penose.
Invece, prendendo alla sprovvista i sorpresi aguzzini, lo scimpanzé abbracciò il prigioniero, assunse un atteggiamento protettivo e cercò di lenire il suo dolore leccandogli le ferite.
Infuriati dalla pietà dimostrata dall’animale, i torturatori lo torturarono e lo uccisero. E sebbene, forse, non riuscirono ad esercitarsi, probabilmente riuscirono a divertirsi.
Da quel povero scimpanzé impariamo che, quantomeno nel caso del poeta ebreo tedesco, la pietà è una qualità animale che si esercita senza che la specie abbia la benché minima importanza.
Impariamo, anche, che probabilmente il suo atteggiamento era dovuto al fatto che Mühsam si ritrovava in penose condizioni di salute, il che non avveniva con altri esseri umani con i quali l’animale aveva avuto rapporti, e che – forse – questa condizione risvegliò in lui sentimenti di pietà.
 Infine, indipendentemente del fatto che, per antonomasia, il nazismo sia l’immagine del male e una tra le rappresentazioni più brutali di ciò che è in grado di essere l’essere umano, impariamo che il male è condizione innata in molti tra questi esseri umani: lo scimpanzé è stato ucciso per non rispettare il suo presunto compito, e perché la sua pietà si collocava in una posizione apertamente contraddittoria con tutta la filosofia nazista (perché, in fin dei conti, sempre di filosofia e di condizione umana si trattava).

A. Rivas, “Pietà laica”, “L’altrapagina”, Cittá di Castello, gennaio 2008[1]

A meno di 24 ore dell’ultimo massacro a Gaza, cerco d’informarmi su RAI 3 (non saranno più comunisti, mi dico, ma quantomeno dovrebbero essere laici e avere pietà, presumo). Infatti, nell’edizione delle 7,30 del 15 maggio 2018, la mattina dopo l’ennesimo massacro, ascolto i titoli: attesissima apertura della mostra su Henry Potter, prossimo incontro Salvini-Di Maio, Valeria Gollino presenta il suo primo film al festival di Cannes, a Gaza lo scontro tra l’esercito israeliano e la popolazione civile palestinese ha provocato una sessantina di morti e oltre 2.500 feriti tra i palestinesi.

Forse perché la parola è difficile, nulla si dice sulla Nakba. Le poche e castigate riprese sul massacro sono accompagnate da splendide immagini del tailleur esibito da Ivanka alla festa dei macellai: l’inaugurazione della nuova ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, secondo l’ONU città condivisa da due Stati.

Mi spaventano le immagini, e sono indignato della mia credulità verso la RAI. Ho bisogno di un minimo di distanza per pensarci, ma mi pare moralmente obbligatorio dire subito qualcosa.

E allora, poiché tutte le stragi si somigliano, uso come canovaccio un mio lavoro del 2009.

La necessità di prendere un po’ di distanza temporale per riflettere deriva dal fatto che, a mio parere, il vero orrore di una strage – parlo del danno che fa al mondo comune, all’intimità universale intrecciata in tutti i nostri corpi – non si rivela completamente nelle oscene cifre dei morti, né nel numero di proiettili lanciati sulla popolazione civile, né nelle immagini ormai irreali di cadaveri a pezzi e case abbattute.

A volte, mi pare, sia più esatta e completa una frazione incommensurabile, un millimetro di spirito che le statistiche non possono cogliere.

Ad esempio, nei 24 giorni di implacabili bombardamenti israeliani su Gaza tra il 27 dicembre 2008 e il 20 gennaio 2009, l’indizio più rivelatore (per me) è stato quello raccontato con modesta e lacerante tristezza da Suleiman Baraka, un astrofisico di Gaza che lavorava alla Virginia Tech per la NASA.

Raccontò che il 29 dicembre ricevette nel suo ufficio una telefonata che gli annunciava che, a migliaia di chilometri, il quartiere dove viveva la sua famiglia era sotto le bombe.

Quando recuperò la comunicazione, dieci ore dopo, seppe che la sua casa era stata distrutta e che, come il suo telescopio, anche suo figlio Ibrahim, di 11 anni, era stato assassinato:

Spesso portavo i miei figli sul tetto del palazzo in cui è morto mio figlio”, raccontò alla giornalista Amy Goodman, “e gli facevo vedere Venere, Mercurio e il cielo … Perché se a un bambino palestinese gli chiedi: quando guardi il cielo, cosa vedi? Normalmente ti risponde: vedo elicotteri Apache e aerei F-16. Perciò volevo insegnare ai miei figli che c’è qualcosa di bello dietro questi stereotipi.[2]

Il suo racconto mi fece venire in mente una canzone del cubano Silvio Rodríguez:

Yo soñé con aviones/que nublaban el día/justo cuando la gente/más cantaba y reía/más cantaba y reía. Yo soñé con aviones/que entre sí se mataban/ destruyendo la gracia/de la clara mañana/de la clara mañana. Si pienso que fui hecho/para soñar el sol/y para decir cosas/que despierten amor. ¿Cómo es posible entonces/que duerma entre saltos/de angustia y horror?” Ho sognato con aerei che oscuravano il giorno, proprio mentre la gente più cantava e rideva. Ho sognato con aerei che tra loro si ammazzavano distruggendo l’incanto del limpido mattino. Se penso che sono stato fatto per sognare il sole e per dir delle cose che suscitino amore. Com’è possibile allora che dorma tra soprassalti di angoscia ed orrore?)[3]

Torniamo a noi. Suleiman Baraka era un palestinese moderato che aspirava alla pace. Che si era costruito una casa nuova per ospitare una famiglia ebraica. Che voleva far vedere ai bambini palestinesi che, dietro al rumore dei cacciabombardieri, il cielo è pieno di stelle silenziose.

Invece, non è vero: il cielo palestinese è pieno di bombe che distruggono non solo le case sulla terra ed i bambini che ci abitano ma, anche, il cielo che incombe sulle nostre teste, per tutti noi, malgrado sia lo stesso cielo sotto il quale Kant scopriva gli imperativi della morale umana.

Un telescopio, un cannone rovesciato, serve per contemplare nelle stelle il valore degli esseri umani, e la loro necessità di leggi condivise. Un cannone serve solo per distruggere telescopi perché, indipendentemente dal luogo dove cadano le sue bombe, da quale corpo abbattano, o da quale bocca storcano un lamento, raggiungono sempre un telescopio. Oppure, ma è la stessa cosa, colpiscono uno sguardo rivolto verso le stelle.

“Come posso consolare mio figlio Daoud, che ha cinque anni ed è stato testimone del bombardamento della sua casa e dell’assassinio di suo fratello?”, si chiedeva Suleiman.

Non potrà farlo. Forse riuscirà a fare che Daoud continui a mangiare ancora con piacere il pane con lo za’atar – quantomeno, che lo mangi ancora – e potrà persino continuare a conservarlo legato alla vita con fili di aquilone e corde di caramella. Ma neanche questo è certo. Perché, racconta la maestra Ghada Abu Ward[4], i bambini di Gaza vogliono morire con i loro genitori e i loro fratelli assassinati dalle bombe. Perché, testimonia lo psichiatra e attivista per i diritti umani Eyad Al-Sarraj[5], “il 45% dei bambini palestinesi ha visto i soldati israeliani insultare o picchiare i suoi genitori […] Il 75% ha problemi emotivi provocati dalla continua esposizione al volo radente degli aerei e al rumore dei bombardamenti […] Il 96% ha visto morti o feriti […] Il 36% vuole morire sotto gli attacchi dell’esercito di occupazione”.

Qualche imbecille, non necessariamente di estrema destra, potrebbe parlare dell’inedita espansione della freudiana pulsione di morte e/o del fanatismo della loro cultura primitiva. Nulla sapendo di psichiatria, a me sembra che dipenda dal fatto che a questi piccoli telescopi non sia permesso guardare il cielo, e che finiscano sempre in pezzi per terra.

Ai tempi di Immanuel Kant, il filosofo scrisse:

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle o semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori dal mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”[6].

Ai tempi di Joseph Conrad, il romanziere scrisse[7]: “Era una di quelle notti chiare, stellate, coperte di rugiada, che opprimono lo spirito e schiacciano il nostro orgoglio con la brillante prova della terribile solitudine, dell’oscura insignificanza disperata del nostro pianeta”.

Ai tempi di Pablo Neruda, il poeta scrisse[8]: “Posso scrivere i versi più tristi questa notte. Scrivere, ad esempio: La notte è stellata, e scintillano, azzurri, gli astri in lontananza. Il vento della notte gira nel cielo e canta”.

Oggi, nel cielo di Gaza – come in quello della Siria o dell’Afghanistan – i bambini intravedono solo nubi di droni, elicotteri e aerei. Nei luoghi normali, i bambini vogliono pane e cioccolata, ampi spazi, genitori liberi. In Palestina molti di loro vogliono solo morire.

Che i bambini palestinesi non vedano le stelle e non abbiano voglia di vivere è colpa – si dice – della guerra. Ma, che guerra è questa?

Nessuna parola può spegnere un incendio, guarire una ferita o resuscitare un morto, ma può alimentare un rogo, affilare un coltello e scavare trincee. Poiché le parole non guariscono, ma possono uccidere, bisogna usarle con cura.

Diceva Karl Kraus alla vigilia della Prima Guerra Mondiale: “Chi ha qualcosa da dire, faccia un passo avanti e stia zitto”. Nei contesti molto tesi, quando la violenza si contagia con un verbo piccolo, laddove delle cause storiche mettono in moto inarrestabile un’invasione di motivi immediati e veementi, bisogna osare per non dire certe cose.

Riguardo al cosiddetto “conflitto palestinese”, la responsabilità esige di non usare certe parole, rinunciare a determinati vocaboli che, nascondendo la loro lunga durata genealogica, collocano chi parla in uno strettissimo presente dentro al quale c’è ogni volta meno margine di manovra.

Paradossalmente, una di queste parole cieche, senza via d’uscita, è la parola “pace”.
La Palestina è rinchiusa nella parola “pace”, che – non bisogna dimenticarlo – è tra le parole più usate da coloro che lanciano bombe sui telescopi di Gaza. In questo senso, è del tutto vero che gli israeliani desiderano la pace molto più dei palestinesi. Basta, infatti, uno sguardo alle statistiche per verificare che sono proprio i loro dirigenti – nonché i loro sostenitori statunitensi ed europei – a pronunciare la parola pace con maggiore frequenza.

Non è un caso. Non lo è, anzitutto, perché il discorso sulla “pace” e sulla “pacificazione” alimenta e naturalizza l’illusione che ci troviamo davanti ad una situazione di guerra, che siamo immersi in un “conflitto”, in cui le due parti hanno ragione e ambedue devono fare concessioni. Tuttavia, proprio l’insistenza sulla “pace” è servita perché Israele finora non facesse alcuna concessione, anzi, e perché le “discussioni sulla pace”, che in sé stesse sono un rifiuto delle risoluzioni dell’ONU, siano molto funzionali all’occupazione.

Da Oslo alle numerose “Road Map”, quest’illusione di “trattativa permanente”, sempre incitata e sempre frustrata premeditatamente, è servita a Israele per ampliare le sue colonie, per costruire e allargare il Muro, e per imporre un assedio medievale sulla striscia di Gaza.

Il plotone di esecuzione punta le armi sui palestinesi allineati contro il muro e il generale ordina di sparare: “Pace!”.

Il pilota dell’F-16 che sorvola su Gaza vede il tetto della casa di Ibrahim e schiaccia il tasto con la scritta “Pace”.

Dopo vent’anni di “trattative di pace”, forse a tutti piacerebbe tornare indietro di venti anni. In questi vent’anni i palestinesi hanno visto erosa la loro unità, e gli israeliani hanno eletto il governo più a destra, violento e intransigente della loro storia. In questo senso, se i bambini palestinesi non possono vedere le stelle e vogliono morire, non è per colpa della guerra, ma della “pace”.

Il “compito responsabile” dei produttori di discorsi – giornalisti, politici, intellettuali – consiste in eliminare gli ostacoli verbali, delocalizzare e disattivare i vocaboli che possono scoppiarci tra le mani. Perciò, poiché non possiamo spegnere incendi, guarire ferite né resuscitare morti con la parola, proviamo almeno a sgombrare il terreno di quelle parole che ravvivano il fuoco, affilano i coltelli e alimentano le bombe. Ossia, se vogliamo veramente la pace, lasciamo da parte la parola “pace”.

Ma se non parliamo di pace, di cosa parliamo? Con quale parola possiamo rimpiazzarla?

Elementare, Watson. La parola pace è particolarmente bellicosa perché serve per reprimere la vera, la sola soluzione possibile. Ossia, perché impedisce che si pronunci la parola “giustizia”.
“Pace!”, ordina il generale al plotone di fucilazione. “Giustizia!”, rispondono i caduti.

Che i bambini palestinesi non possano vedere le stelle, e vogliano imitare i loro genitori assassinati, è colpa dell’ingiustizia. Ne sono individualmente responsabili gli ingiusti.

La pace è una strada cieca.

La giustizia non riesce a camminare, ma almeno può vedere. E vedere è arrivare lontano con gli occhi, fino a quelle stelle in cui osserviamo il valore degli uomini e la loro necessità di leggi condivise.

La storia è ben nota. Per secoli, l’antisemitismo europeo ha espulso, isolato, perseguitato ed a volte linciato – con i pogrom – i componenti più poveri di una minoranza religiosa nativa: gli ebrei. Mentre il colonialismo sterminava su grande scala i “selvaggi” e “orientali” esterni – decine di milioni di “creature inferiori”, sacrificate su tutte le contrade del mondo – mantenevano all’interno il loro proprio “irriducibile Oriente”, funzionalmente contenuto in una esistenza degradata, disprezzata, sospetta persino ai più spregiudicati filosofi dell’Illustrazione (Voltaire o Hegel).

Neri, indigeni, arabi, non erano un problema. Erano fuori e potevano essere annientati senza rimorsi.

Gli ebrei, “i selvaggi interni”, creavano più difficoltà. Erano oggetto di speculazione, ammirazione, rifiuto. Si scriveva su e contro di loro. Erano invitati ad assimilarsi e la stessa persecuzione dimostrava soltanto che non volevano o non potevano farlo – come accadeva ieri per le donne perseguitate dalla chiesa, e accadde oggi con gli zingari o i musulmani – per un “errore strutturale”; per un incorreggibile vizio di origine.

Il loro rifiuto trasformò in scarto etnico la loro diversità religiosa. Erano “sporchi”, “pigri”, “orientali”, da un determinato momento in poi furono semplicemente “insetti”.

Così, dal 1933 il regime nazista tedesco, aspirante sempre frustrato al ruolo di potenza coloniale, cercò di fare con gli ebrei europei ciò che i suoi vicini avevano fatto da sempre, ma all’esterno dei loro confini, con tutti i popoli della terra che si erano trovati davanti.

Come dirà Simone Weil, “ciò che ci scandalizza di Hitler è che fa con gli europei ciò che gli europei hanno sempre fatto con gli altri popoli”[9].

“Auschwitz”, scrisse lo svedese Sven Lindqvist parlando del genocidio africano, “è stata l’edizione tedesca, moderna, industriale, di uno sterminio sul quale l’impero mondiale europeo si era fondato durante lungo tempo” [10].

Auschwitz è esistito, ci fa ancora tremare con il tremore più radicale che può commuovere l’umano. Ciononostante, fin da Norimberga (1945), negare la sua esistenza non è solo una ignominiosa mancanza di dignità ma persino – in alcuni Paesi – un reato punito dalla legge.

C’è un’altra storia meno nota. Alla fine del XIX secolo, un piccolo gruppo di intellettuali ebrei, composto da quelli che avevano assimilato più profondamente la cultura europea, fondò a Basilea il movimento sionista, per stabilire in qualche luogo uno “Stato nazionale ebreo”.

Come denunciò molto presto il già citato Karl Kraus, ebreo universale boemo-viennese, il sionismo condivideva con l’antisemitismo alcuni principi e scopi: accettava l’idea che l’ebraismo fosse un “problema”, al quale bisognava trovare una “soluzione finale”; era a favore dell’espulsione degli ebrei dall’Europa, e insisteva sulla “specificità” etnico-razziale dell’ebraismo (almeno degli ebrei ashkenaziti)[11]. In ogni caso, i suoi fondatori erano consci del fatto che il progetto di segregazione degli ebrei di Europa – pilastro della tradizione antisemita – era “molto europeo”, come dimostrano gli argomenti utilizzati da Theodor Herzl per convincere i governi occidentali dei vantaggi che sarebbero derivati dallo stabilire uno Stato sionista in Palestina: “Per l’Europa costruiremo lì un pezzo di muraglia contro l’Asia, saremo la sentinella avanzata della civiltà contro la barbarie”[12]. Il carattere “molto europeo” del sionismo si manifestò chiaramente negli anni ‘30, quando la “fattiva collaborazione” del razzismo nazista accelerò l’emigrazione ebrea in Palestina.

Mentre Hitler dettava le leggi razziali e apriva i primi campi di concentramento, la Convenzione Mondiale di Ihud Po´alei Tzion e il Congresso Sionista (Zurigo, 1937), dibattevano apertamente sulla necessità della “pulizia etnica” della Palestina[13]: Aharon Zisling, futuro ministro dell’agricoltura nel primo governo Ben Gurion: “Non discuto sul nostro diritto morale a proporre un trasferimento della popolazione, perché non c’è nessun errore morale in una proposta che tende a concentrare lo sviluppo della vita nazionale”; Golda Meir, quarto premier d’Israele (1969) e prima donna a guidare il governo del suo Paese: “Anch’io vorrei gli arabi fuori dal mio Paese e la mia coscienza resterebbe assolutamente pulita”; David Remez, primo Ministro dei trasporti di Israele e tra i firmatari della “Dichiarazione d’indipendenza”: “E’ una soluzione giusta e corretta”; Shlomo Lavi, ex comandante della “Brigata ebraica” (Jewish Infantry Brigade Group) e cofondatore del kibbutz Eïn-Harod: “E’ molto giusto e molto morale”; Eliahu Hacarmeli, prominente parlamentare della seconda Knesset: “Persino se dovesse realizzarsi ricorrendo alla forza – tutte le imprese morali si realizzano mediante la forza – sarebbe pienamente giustificata in tutti i sensi […] Si tratta di un programma logico, morale e umano in tutti i sensi”; Ben Gurion, fondatore di Israele e prima persona a ricoprire l’incarico di Primo ministro del suo Paese: “Con il trasferimento obbligatorio avremmo a disposizione vaste aree […] Appoggio il trasferimento obbligatorio. Non ne vedo nulla d’immorale”[14].

Racconta lo storico israeliano Ilan Pappé: “dieci anni dopo, tra il novembre 1947 e il settembre 1948, l’impresa coloniale europeo-sionista si completava con la distruzione di 531 villaggi palestinesi, l’evacuazione di 11 quartieri urbani e almeno 31 stragi indiscriminate”[15].

Auschwitz è indiscutibilmente esistita. Anche la Nakba.

Con la Nakba sono stati cacciati via dalle loro terre secolari 750.000 palestinesi, ma contrariamente ad Auschwitz, negarla non solo non è moralmente condannabile né legalmente punibile, ma il negazionismo è approvato, applaudito e persino richiesto dalla maggior parte dei governi, giornalisti e intellettuali del mondo intero. Dopotutto, quel “negazionismo” è la condizione stessa dell’esistenza di Israele in quanto Stato legittimo, democratico, con diritto a difendersi, come affermato da Donald Trump ed esemplarmente dimostrato da Benjamin Netanyahu la sera del 14 maggio 2018.

Se liberiamo la giustizia dal bavaglio della pace, si capisce almeno la doppia ingiustizia sulla quale riposa il progetto sionista concretizzatosi nello Stato di Israele: ingiustizia contro gli ebrei, di cui pretende la rappresentazione esclusiva – come il Vaticano sui cristiani – costringendoli a riconoscersi in termini etnico-razziali all’interno di una costruzione ferocemente ideologica che incarna il peggio del nazionalismo, del colonialismo e del capitalismo occidentali; ingiustizia contro i palestinesi, diventati, afferma il libanese Elias Khoury, “gli ebrei degli ebrei”, sotto un’occupazione che, da 70 anni, è appoggiata e sostenuta dalle stesse potenze che disprezzavano e disprezzano gli ebrei di tutte le razze e di tutte le religioni, e che oggi minacciano con far saltare per aria tutte le stelle del mondo[16].

Se vogliamo pace bisogna chiedere giustizia. E la giustizia esige che ebrei e palestinesi si liberino di Israele. È la più modesta, la più onesta, la meno scandalosa delle proposte.

Riconoscere la Nakba? Smantellare lo Stato sionista? Salvare gli ebrei? Salvare i palestinesi?

È scomparsa l’URSS e tutti abbiamo applaudito. È scomparsa la Jugoslavia e ci siamo rallegrati. Sono scomparse decine di Paesi – la Cecoslovacchia e la Rhodesia, oltre al Sudafrica razzista, tra altri – e nulla è successo. Perché dovrebbe essere provocatorio proporre la scomparsa di uno Stato inviabile e radicalmente ingiusto?

Quindi, proponiamolo. Poi, si dia libertà ai rifugiati palestinesi di tornare in Palestina e libertà agli ebrei di tornare ai loro Paesi d’origine. Dopo, la popolazione rimasta e quella ritornata creino un nuovo Stato laico e democratico, in cui telescopi di tutti i colori possano rivolgersi verso un cielo senza droni, elicotteri ed F-16.

Ha scritto il nipote di una vittima dell’Olocausto, Jean-Moïse Braitberg, al presidente della repubblica di Israele:

Mi direte, signor presidente, che è legittimo, per il vostro Paese, difendersi da chi lancia razzi su Israele, o dai kamikaze che uccidono molti israeliani innocenti. A ciò risponderò dicendo che il mio sentimento di umanità non varia a seconda della cittadinanza delle vittime. Invece, signor presidente, voi dirigete le sorti di un Paese che pretende, non soltanto rappresentare gli ebrei nel loro complesso, ma anche la memoria di quelli che furono le vittime del nazismo. Questo mi riguarda ed è per me insopportabile. Conservando nel Memoriale di Yad Vashem, nel cuore dello Stato ebraico, il nome dei miei congiunti, il vostro Stato tiene prigioniera la mia memoria familiare dietro il filo spinato del sionismo, per farne l’ostaggio di una cosiddetta autorità morale che commette ogni giorno quel crimine abominevole che è la negazione della giustizia. Quindi, per favore, cancellate il nome di mio nonno dal santuario dedicato alla crudeltà fatta agli ebrei, perché essa non giustifichi più quella fatta ai palestinesi.[17]

Scrive il Jews in Solidarity with Palestine (New York, 7 gennaio 2009):

Chiamiamo il popolo ebreo di tutto il mondo, inclusi quelli che vivono in Israele, a unirsi a noi nel rivendicare quest’eredità: il rifiuto del razzismo e del genocidio; il rifiuto dello Stato sionista, la cui stessa essenza è il razzismo; l’abbraccio ai nostri fratelli e sorelle palestinesi; la difesa della loro giusta lotta per recuperare la terra rubata e costruire una Palestina libera.

Nella carta di fondazione del IJAN (International Jewish Antizionist Network) si legge: “Ci impegniamo a smantellare l’apartheid israeliano, al ritorno dei rifugiati palestinesi e alla fine della colonizzazione israeliana della Palestina storica”.

Scrive l’attivista ebreo Michael Warschawski, dell’Alternative Information Center (18 gennaio 2009, “Lettera a Barak, Olmert e Livni”):

Insieme a decine di migliaia di altri ebrei, dal Canada alla Gran Bretagna, dall’Australia alla Germania, vi avvisiamo: Non avete il diritto di parlare in nome dei martiri del nostro popolo. Non siete Anna Frank dal campo di concentramento di Bergen Belsen, ma Hans Frank, il generale tedesco che affamò e distrusse gli ebrei della Polonia.

Voi non rappresentate alcuna continuità con il ghetto di Varsavia, perché oggi il ghetto di Varsavia è proprio di fronte a voi, preso di mira dai vostri carri armati e dalla vostra artiglieria, e il suo nome è Gaza. Gaza, che avete deciso di eliminare dalla mappa, come il generale Frank intendeva eliminare il Ghetto […] Noi, non voi, siamo i figli di Mala Zimetbaum e di Marek Edelman, di Mordechai Anilevicz e di Stephane Hessel, e trasmettiamo il loro  messaggio all’umanità per custodirlo tra le mani dei combattenti della resistenza a Gaza: “Lottiamo per la nostra libertà e per la vostra, per la nostra dignità umana, sociale e nazionale e per la vostra” (appello del ghetto di Varsavia al mondo, Pasqua 1943)”[18].

Nell’ ottobre 2008, il Relatore speciale dell’ONU per i Diritti Umani in Palestina, Richard Falk, dichiarava:

È macabro. Non conosco nulla che possa compararsi con questa situazione. La gente fa riferimento al ghetto di Varsavia come l’analogia più simile nei tempi moderni. Non conosco nessuna struttura di un’occupazione che sia durata tanti decenni e che implichi un’oppressione così grave.

La dimensione, l’intenzionalità, le violazioni del diritto umanitario internazionale, l’impatto sulla salute, sulla vita, sulla sopravvivenza e sulle condizioni generali giustificano la denominazione di crimine contro l’umanità. La situazione risponde ad un proposito chiaro e diretto delle autorità civili e dell’esercito di Israele. Ne sono responsabili e dovrebbero esserne giudicati.

Aggiungeva il 28 novembre 2008:

Ovviamente, lo scopo dell’assedio israeliano è distruggere Hamas, il gruppo islamico radicale che ha vinto le elezioni palestinesi del gennaio 2007. Ma Hamas ha proposto in più occasioni una tregua e ha offerto di aprire trattative per una tregua permanente. Durante l’ultimo cessate il fuoco, raggiunto tramite intermediari egiziani nel luglio scorso, Hamas ha mantenuto la tregua pur se Israele si è rifiutato di attenuare l’embargo. Ed è stato Israele, il 4 novembre scorso, a lanciare un attacco armato che ha violato la tregua e si è concluso con l’uccisione di sei palestinesi. Soltanto dopo quest’azione Hamas ha ricominciato a lanciare i suoi missili casalinghi contro Israele. Ne ha lanciato oltre 200 da quando è iniziata l’ultima ondata di violenza, senza provocare alcuna vittima in Israele.

Per il governo israeliano le accuse di Falk erano un “Discorso di Odio”. Quindi, il Relatore speciale dell’ONU per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi è stato arrestato mentre transitava per l’occupata Ramallah, e caricato immediatamente su un aereo diretto negli Stati Uniti[19].

Il 15 maggio 2018, nel settantesimo anniversario della Nabka, noi verifichiamo che il popolo palestinese, quello che non può vedere le stelle, quello i cui bambini desiderano a volte la morte, quello spinto una volta e poi un’altra ancora sull’orlo dell’abisso, sovvertendo tutte le logiche – psicologiche, politiche, antropologiche – continua a resistere con la dignità di un telescopio puntato verso il cielo. Continua a ricordarci che la sola soluzione ai problemi del mondo – in Palestina come in Iraq e in Afghanistan, in Colombia come negli Stati Uniti, in Italia come in Corea, in Siria come in Brasile, è introdurre un poco – almeno un poco – di giustizia.

____________________________________________

[1] Di Erich Mühsam e su Erich Mühsam esistono diverse opere in italiano. Vedere Leonhard Schäfer, Patrizia Creati, Ska Punk CAUSA: “C’era una volta un rivoluzionario”,  CAUSA: “Il prigioniero (Piegarsi vuol dire mentire)”.

[2] “Democracy Now”, programma radiofonico trasmesso quotidianamente da decine di radio statunitensi e canadesi dal 2006, “Palestinian Astrophysicist in US Recounts How His 11-Year-Old Son Died When Israeli Warplanes Bombed His Family’s House!”, 16 gennaio 2009

[3] Silvio Rodríguez, “Sueño de una noche de verano”, “Cuba Classics 1: Canciones urgentes – Los grandes éxitos”, L’Avana 2003.

[4] Anne Barker “War-shocked Gaza children ‘want to die’”, ABC News, 13 Aprile 2009.

[5] Eli Erich Lasch, ex direttore dei servizi sanitari israeliani nella striscia di Gaza, “2009 Exclusive Interview Dr. Eyad el-Sarraj, Director of Gaza Community Mental Health Program, israelseen.com, 9 dicembre 2016.

[6] Immanuel Kant, “Critica della ragion pratica. Conclusione”, Laterza, Bari, 1974 (prima edizione 1788).

[7] Joseph Conrad, “Cuore di tenebra”. Ci sono una ventina di traduzioni in italiano. Vedere Barbara Gambaccini, Marina di Massa, Edizioni Clandestine, 2008 (prima edizione 1899).

[8] Pablo Neruda, “Poema 20”, in “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, Passigli, Firenze 2010 (prima edizione 1924).

[9] Simone Weil, “La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana”, Edizioni di Comunità, Milano 1954 (prima edizione 1949).

[10] Sven Lindqvist, “Sterminate quelle bestie”, TEA, Milano 2003 (prima edizione 1992).

[11] Karl Kraus, “Una corona per Sion”, Torino, Free Ebrei, 2015 (prima edizione 1898). Sull’atteggiamento di Kraus nei confronti dell’ebraismo vedere Fausto Cercignani, “Il fine secolo viennese. Arthur Schnitzler, Richard Beer-Hofmann e Karl Kraus”, in “Studia austriaca” – “Sprach-Wunder”. “Il contributo giudaico alla letteratura austriaca”,  CUEM, Milano, 2003.

[12] Theodor Herzl, “Lo stato ebraico”, Il Melangolo, Genova 2003.

[13] Giovanna Canzano, “Pulizia etnica in Palestina. Intervista a Mauro Manno”, “Rinascita”, Roma 11 gennaio 2009.

[14] Per queste affermazioni vedere Robert Rockaway, “Zionism: The National Liberation Movement of The Jewish People”, 21 gennaio 1975; Shlomo Avineri, “Zionism as a Movement of National Liberation”, 12 dicembre 2003; Binyamin Neuberger “Zionism – an Introduction”, Israeli Ministry of Foreign Affairs, Tel Aviv 20 agosto 2001. Per una sintesi, vedere Claudio Vercelli, “Israele. Storia dello Stato (1881-2008)”, Giuntina, Firenze 2008; Paolo Di Motoli, voce “Sionismo” uscita in versione rivista e abbreviata in “Gli Ismi della politica. 52 voci per ascoltare il presente” a cura di A. D’Orsi, Viella Editore 2010; Vincenzo Pinto, “Kadimah! Saggi sull’identità ebraica (1998-2012)”, Free Ebrei, Torino 2013.

[15] Ilan Pappé, “History of Modern Palestine: One Land, Two Peoples”, Cambridge University Press, 2003.

[16] Elias Khoury, “La porta del sole”, Feltrinelli, Milano 2014.

[17] “Effacez le nom de mon grand-père à yad vashem, dédié à la mémoire des victimes juives du nazisme”, “le Monde”, Parigi 28 gennaio 2009.

[18] Michel Warschawski “Absolutely Not! Not in Their Name, Not in Ours”, 18.01.2009, in “ComeDonChisciotte, 26 gennaio 2009.

[19] “UNHCR appointment infuriates Israel”, “Jerusalem Post”, 26 aprile 2008. Sulle opinioni e il racconto di Falk vedere Howard Friel, Richard A. Falk, “Israel-Palestine on Record: How the New York Times Misreports Conflict in the Middle East, Verso, Santa Barbara (CA) 2007.

Rodrigo Andrea Rivas

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *