31 agosto, 4 giorni dal plebiscito in Cile – Questioni di memoria

31 agosto, 4 giorni dal plebiscito in Cile – Questioni di memoria

Abbiamo a disposizione tre tipi di memoria.
La prima, documentale, cronologica, ci serve sia per ricordare le date delle guerre e delle rivoluzioni ed i compleanni delle persone care, sia per orientarci nel tempo.

La seconda, collettiva, si rapporta sia alle risposte sociali radicate nel corpo e nel discorso, sia agli imbrogli della vita in comune: come comportarsi in chiesa, come trattare un anziano, come seppellire i morti …
Normalmente la si denomina senso comune e si materializza in atteggiamenti, riti, cerimonie e istituzioni che ci permettono di agire e comportarci in modo adeguato senza bisogno di pensare.
Non pensare è utile senon addirittura indispensabile per ricorrere a misure già codificate in una situazione di emergenza – una tormenta o un terremoto – ma è pericoloso e dannoso riguardo tradizioni e innovazioni insensate come, ad esempio, esportare la democrazia o combattere la povertà ammazzando i poveri.
Per cui il senso comune va costantemente rivisto e razionalizzato.

La terza si sedimenta attorno a costumi e oggetti.
Penso che ciò che segna davvero il nostro carattere è sommerso nel nostro corpo come flussi di ripetizioni e cicatrici, come gesti rinnovati con fatica, come lunghe abitudini e angusti frammenti: la strada della scuola, l’odore del mare e del fieno, il canto della pioggia, l’ecco canterino del gelataio ambulante, la musica dell’organetto, il fruscio delle gonne, l’odore dei fiori e il canto delle cicale …
Poiché questa memoria si lega ai sensi, può essere tradotta facilmente persino in cinese, sia perché è patrimonio condiviso sia perché, attingendo ai quattro elementi naturali che compongono ogni materia – fuoco, aria, acqua e terra – è terreno collettivo.
Tuttavia, per tradurla ci vuole uno sforzo introspettivo e linguistico che riscatti ciò che, pur essendo comune, è rinchiuso nel proprio corpo.
Chiamiamo questo sforzo “poesia”, “musica”, “storia” “letteratura”, “filosofia”, “etica”, politica …

I nostri tre tipi di memoria sono stati e sono erosi dal capitalismo e dalle sue tecnologie ancillari.
La memoria documentale è attaccata dalla capacità tecnologica di registrazione e archivio.
Date, dati, statistiche… sono ormai immagazzinate su supporti esterni che hanno svuotato le nostre teste dove galleggiano avvenimenti senza collegamento, isolati dalla storia, resi monumenti dai media specializzati in accomunare i loro prodotti e merci diverse.
Ci resta lo scritto, ma non basta poiché il capitalismo produce bambini adulti persi in un tempo uniforme, senza limiti né approdi.

I danni alla memoria collettiva sono altrettanto seri.
Possiamo parlare di specie animali scomparse o minacciate da estinzione, ma abbiamo dimenticato i gesti millenari, le cerimonie comuni, le risposte collettive.
Possiamo pensare a mestieri morti, a liturgie cerimoniali estinte, a forme di organizzazione politica o a vincoli di solidarietà che sembrano definitivamente disfatti, ma le nostre risposte automatiche – il senso sociale senza pensiero – non derivano dalla tradizione, dall’istituzione o dall’educazione, con i loro vantaggi e rischi, ma dalle risposte preconfezionate dalle multinazionali.
Ci pensa l’ENI o la Perugina, magari laddove prima ci pensava la mamma che, quantomeno, ci voleva bene.

Nei Paesi arricchiti (e per imitazione anche in quelli impoveriti), la stragrande maggioranza dei bipedi invece della memoria individuale fatta da ripetizioni e cicatrici, abitudini e oggetti, possiede solo un universale depliant pubblicitario che, non avendo corpo, può scambiarsi con quello di chiunque altro.
Intendo dire che i nostri ricordi, individuali e collettivi, sono fatti ormai da robe: l’area di servizio dell’autostrada, la finale del mondiale di calcio, il logo di, la pubblicità di …
Ovvero, che eliminando i cinque sensi ed i quattro elementi sono scomparse tanto la possibilità di una esperienza personale come la possibilità di comunicarla.

In ogni epoca, le idee dominanti sono le idee della classe dominante.
In ogni latitudine, reazionari e razzisti suoi interpreti confondono la realtà con ciò che vedono e ciò che vedono con ciò che pensano di vedere. Sono sempre ossessionati dalla necessità di possedere un’idea realistica dell’universo.
Realista quanto la prospettiva senza orizzonte di cavalli e mucche in campagna, un’illusione pietrificata che acquista i connotati di una verità indiscutibile.
In altre epoche lo sono state la convinzione che la terra fosse piatta e finisse nelle colonne di Ercole o che, essendo le streghe responsabili del cattivo tempo, bisogna torturarle fino alla morte o bruciarle sul rogo.
Ora lo è che il somalo che occupa la mia panchina nel parco è venuto per farmi del male.
Alcune cose rimangono uguali. Ad esempio, che essendo la mia donna roba mia, posso anche ammazzarla a martellate.
Ieri ed oggi ciò avviene in nome della verità e in difesa della realtà.

Quando nel 1974 sono diventato un esule a malapena avevo un vago sentore di tutto questo che, quindi, devo al mio più che lungo soggiorno italico (naturalmente, gli italiani non ne hanno alcuna colpa).
Comunque, credo che da quel momento le mie riflessioni, le mie speranze e paure, i miei limiti, abbiano assunto spesso strade e contorni diversificate da quelli dei miei vecchi concittadini ma, anche, da quelle dei miei nuovi concittadini.
Per quel che mi riguarda, ecco il nocciolo della condizione di esule.
Ed ecco perché solo un essere non pensante può pensare che si possa diventare esule per avere un telefonino.
Su un piano diverso, ecco perché non ci possono essere né perdono né oblio.
E perché, pur respingendo la tentazione di confondere il mondo con i miei problemi, non credo siano idee e pulsioni personali, penso che in un mondo multiculturale non dovrebbero essere fatti trascurabili per chiunque pensi che il mondo vada cambiato..

L’universo di queste riflessioni è, appunto un universo e posso trattarlo solo astraendone un pezzettino alla volta.
Un segmento ad esempio, si si ritrova in questa canzone, “La mitad lejana” (La metà lontana), formalmente un semplice scambio di lettere tra qualcuno che se n’è andato e qualcuno che è rimasto.
È una parte, soggettiva e oggettiva, del problema.
Per maggiori notizie, allego il testo.

Un altro pezzo, sempre obiettivo e soggettivo, è la costituzione pinochetista.
Mi auguro scompaia il 4 settembre.
Sarebbe, sarà, una precondizione per ricreare un ambito di salute mentale propedeutico alla ricerca di tante inedite forme di memoria e di felicità, individuale e collettiva.

Secondo Violeta Parra e Victor Jara, la chitarra e il canto hanno senso, capacità d’intendere, ragioni.
Da modesto strimpellatore non qualificato, confermo.

La mitad lejana
di José Seves e Horacio Salinas

¿Cómo andan tu vida,
tus horas, tu calle, tu lluvia,
tus deudas eternas, tus cuotas?
Dime.

¿Cómo están la familia,
los niños nacidos, crecidos,
los viejos contando demora?

Cuenta si es tan duro
cargar en los hombros
el peso de un día
y de noche jugar el sudor
de vertiente sedienta
en amante de gozo.

Dime si con esas proezas gigantes acortas la espera,
si esperanza, te refresca,
para armarte de un poco
de sueños para el otro día.

Yo estoy bien,
pero me urge saber
cómo está mi espejo,
mi reflejo, mi mitad lejana,
la mitad de mi herencia,
mi media mirada,
la mitad que no encuentro,
de mi gota de agua.

Yo estoy bien
pero hazme saber
si han visto mi alma
cuando escapa
lejos de mi cuerpo
y feliz regresada
desde aquel abismo
y me cuenta el abrazo
de un futuro reencuentro.

Santiago del Nuevo Estremo + José Seves – La mitad lejana – Olmué 1995

Rodrigo Andrea Rivas

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