Per il Quirinale, la madre di tutte le elezioni

Per il Quirinale, la madre di tutte le elezioni

Arbitrario adattamento del “Saggio sulla lucidità” di José Saramago (2004), alla elezione del Presidente della repubblica italiana

La trascendentale elezione evocata nel titolo sembra racchiudere tutto il senso della politica italiana.

Nella febbrile attesa del magno avvenimento, in Italia si moltiplicano licenziamenti, chiusure aziendali, morti per Covid, poveri, solitudini…

Ma, solo la cattiveria – che purtroppo non manca – può cercare di appannare con notizie di così poco conto l’eroismo dei 1.009 grandi elettori che, tra un paio di settimane, sfideranno temerariamente ogni delta e omicron.

I malintenzionati non sopportano che il nostro sia il migliore e più diversificato governo al mondo, che ci accompagnino mirabolanti auspici del FMI e che il PNRR ci prometta futuro splendore.   

(I fatti qui raccontati, manifestamente falsi e, devo dirlo, né augurati né augurabili, richiederebbero per completezza la lettura del romanzo “Cecità”, dello stesso autore. Ndr).

Nel seggio quattordici erano presenti il Presidente di seggio ed i rappresentanti del p.d.d. (partito di destra), del p.d.m. (partito di mezzo) e del p.d.s. (partito di sinistra).

Pioveva a dirotto e per tutta la mattina non si era visto neppure un elettore o una elettrice.

La situazione si normalizzava verso le 16:00 quando, finita la pioggia, tutti i cittadini si presentavano in massa.

Appena aperte le urne, però, si constatava che circa il 75% delle schede erano bianche. Perplesso e come sempre pragmatico, il capo del governo fissava un’altra data per le elezioni rimandandole ad un periodo in cui il maltempo non potesse fare scherzi.

Il giorno fissato, la ministra dell’interno inviava delle spie a monitorare movimenti e frasi degli elettori. Per garantire la sicurezza del processo e degli elettori, dichiarava alla “Maratona mentaniana”.

La nuova giornata elettorale vedeva un flusso di elettori regolare che faceva dimenticare la brutta esperienza precedente. Tuttavia, alla fine dello spoglio delle urne il risultato era ancora più catastrofico: vinceva il p.d.d. con l’8% dei voti. Il p.d.m. ne prendeva il 7%. Il p.d.s. il 2%. Le schede bianche erano pari all’83%.

A Palazzo Chigi, il consiglio di ministri lo interpretava come una protesta dei cittadini contro lo Stato.

Secondo prassi consolidata, draghi, nani e ballerine decidevano di abolire l’uso della parola “bianco”.

A partire da quel momento le schede bianche diventavano “white ballot”.

Nelle strade, si storpiavano il nome agli oggetti di uso comune che ricordavano l’aggettivo e le nozze bianche diventavano “white Wedding”.

I giardini non erano più recintati col biancospino ma col hawthorn.

A Genova la focaccia diventava “white pizza”.

A Milano, la strada intitolata alla regina dei Romani nonché imperatrice, Bianca Maria Sforza, diventava “Strada della bella sforzata”.

Alla RAI, la giornalista Bianca Berlinguer diventava Lucente B.

Preoccupato dalla tenuta dell’ordine pubblico, a proposta del Quirinale il governo prendeva la decisione di abbandonare completamente la capitale insieme a tutte le forze dell’ordine e allo stato maggiore della curia vaticana ma, per il benessere dei cittadini, lasciava a Roma i pompieri ed i preti.

Per quelle cose della vita che a volte qualcuno chiama “ricorsi storici”, l’esilio dalla capitale si programmava per le tre del mattina.

I cittadini avrebbero scoperto la “fuga” qualche ora più tardi, leggendo i giornali o guardando la televisione.

All’ora prestabilita (“H-Hour”) tutte le “eminenze” coinvolte si trovavano sulla via Appia, pronti a cominciare il loro triste esilio. Ma, molto prima di arrivare a Frascati le luci delle case che costeggiano il raccordo annullare si erano accese come se tutti fossero stati informati della fuga.

Nelle settimane successive i cittadini di Roma sembravano non accusare il colpo.

Non erano aumentati né furti né stupri e, pur se distanziati socialmente, tutti quanti continuavano a lavorare ordinariamente.

In città era rimasto solo il sindaco Roberto Gualtieri, in contatto telefonico permanente con il presidente della repubblica.

I confini erano sorvegliati dai militari per impedire che qualche cittadino potesse uscire.

Dopo una di quelle telefonate, il sindaco decideva di dimettersi dalla sua carica ma, proprio quando preannunciava l’inedito evento ai suoi collaboratori più stretti, perveniva il suono di una forte esplosione.

L’ancora sindaco usciva dal ristorante in cui si trovava con uno scatto degno di Marcel Jacobs, per recarsi al luogo oggetto dell’attentato, la Stazione Termini.

Accorrevano pure diversi giornalisti, che il primo cittadino ignorava con noncuranza.

I morti erano circa una trentina.

Dall’esilio, il governo attribuiva la colpa dell’attentato ai “biancosi”, “pupazzari” del movimento delle schede bianche.

Un giornalista libero però, intercettava un colloquio tra il Presidente della repubblica e alcuni ministri dal quale emergeva che la bomba era stata fatta collocare dalla ministro degli interni per avere un pretesto che permettesse di colpevolizzare i “nemici della patria”. Per screditargli ulteriormente, faceva volare le “frecce tricolori” che facevano piovere migliaia di volantini incolpando “il movimento” sui poveri romani.

Essendo precarissimo, il giornalista free-lance non riusciva a far pubblicare la notizia,

Pochi giorni dopo, sulle scrivanie della ministro dell’interno, del presidente della repubblica e del capo del governo arrivava la lettera di un uomo che affermava: 4 anni fa, durante l’epidemia di cecità che ha colpito l’intero Stato, sono stato salvato insieme ad altre 5 persone da una donna, la moglie di un medico oculista, che non aveva contratto “il mal bianco”. Tra l’altro, aggiungeva, la donna si era macchiata di un omicidio proprio durante quel periodo.

Secondo l’uomo, la donna che qualche anno prima li aveva salvati dalla cecità. questa volta avrebbe potuto salvarli dai “biancosi”.

La lettera, col timbro “Massima segretezza”, diventava oggetto di una riunione del consiglio di ministri convocata appositamente.

Dopo un accenno di discussione, il drago tagliava corto: sarebbe stata immediatamente istituita una squadra composta da un commissario, da un ispettore e da un agente di seconda classe, col compito di indagare sulla donna e, nel caso, per far ricadere su di lei la responsabilità degli avvenimenti in corso.

La squadra iniziava le sue indagini interrogando l’autore della lettera.

Durante il colloquio, emergeva che era stato il primo ad avere contratto il “mal bianco”.

Che aveva conosciuto i suoi compagni di sventura quando, insieme alla sua ex moglie, si era recato nello studio dell’oculista, marito della donna che oggi potrebbe salvarli, subito dopo essere diventato cieco.

Emulo di Sherlock, il commissario odorava immediatamente che gli altri membri della comitiva continuavano a frequentarsi.

La sola eccezione era proprio quella del “primo cieco”, che aveva deciso di allontanarsi dalla compagnia dopo avere divorziato dalla moglie per colpa di un gesto che lei aveva compiuto quando erano internati ma del quale, pur riconoscendone la necessità, l’uomo si vergognava.

Stupendo il primo cieco, il commissario non mostrò interesse per la concordanza secondo lui esistente tra l’epidemia di cecità e quella delle schede bianche.

Sembrava invece interessato all’omicidio che la moglie del medico avrebbe commesso dentro il manicomio, di cui però non vi erano né prove né testimoni oculari.

Alla fine del colloquio tra l’uomo e i tre delegati dal ministero, il commissario chiedeva al primo cieco di fornirgli nome e indirizzo di tutti i membri del gruppo (tranne quello del ragazzino strabico), e una foto di tutti.

Ai tre agenti, il ministero aveva riservato una stanza in una SPA, assicurazioni e riassicurazioni.

Arrivati alla SPA, il commissario suddivideva i compiti tra gli agenti: l’ispettore sarebbe andato a interrogare due “membri” della comitiva: il vecchio dalla benda nera e la ragazza dagli occhiali scuri; l’agente di seconda classe avrebbe interrogato l’ex moglie del primo cieco: il commissario sarebbe andato a interrogare il medico oculista e sua moglie.

Il commissario si recava presto a casa dei due coniugi presunti colpevoli della rivolta delle schede bianche.

Per non insospettire i coniugi, dopo avere bevuto il caffè il commissario iniziava la conversazione parlando dell’omicidio di cui la donna si sarebbe macchiata.

Con sua grande sorpresa, la moglie gli raccontava l’omicidio in ogni suo dettaglio.

Alla fine del colloquio, il commissario non aveva prove concrete su cui fondare i sospetti.

Non le avevano raccolte neanche i suoi collaboratori.

Quindi, decidevano di continuare a pedinare la coppia senza farsi notare.

Due giorni dopo, mentre  girava immerso nei suoi pensieri, il commissario si fermava in un parco che aveva al centro la statua di una donna con una brocca dove incontrava in una panchina la moglie del medico che faceva fare la sua passeggiatina al “cane delle lacrime” (o Costante), “il cane che sa sempre quando qualcuno ha assoluto bisogno di lui”.

I due iniziavano una conversazione alquanto informale che convinceva definitivamente il poliziotto dell’innocenza della donna.

La sera stessa, la ministro dell’interno gli chiedeva di portare una foto della comitiva al “posto sei-nord”, dove lo avrebbe aspettato un uomo con una cravatta blu a pallini bianchi.

Il giorno successivo, dopo raggiungere il luogo e consegnato la foto, il commissario tornava a casa e continuava le indagini benché avesse capito che la donna e i suoi amici erano innocenti.

Quella sera confessava alla ministro dell’interno i suoi pensieri sulle indagini.

La ministro rispondeva che la sua missione non era quella di scoprire se la donna fosse o meno innocente, bensì di incastrare la moglie del medico ad ogni costo, anche inventando delle prove.

Poiché il commissario si rifiutava di accettare la colpevolezza della donna, la ministro dell’interno richiamava i suoi due aiutanti dando loro appuntamento al “posto sei-nord”.

Al commissario sarebbe rimasto comunque l’incarico formale, in attesa che “rivedesse” la sua ipotesi.

Subito dopo, il commissario si recava dalla moglie del medico per avvisarla del rischio che correva, e si ritirava alla SPA dove una telefonata della ministro dell’interno lo avvisava di guardare il giornale il giorno seguente.

La mattina successiva tutti i giornali tranne due riportavano titolari di condanna alla moglie del medico, capro espiatorio del movimento delle schede bianche.

A quel punto, il commissario decideva di scrivere una lettera da consegnare a uno dei due giornali che non si erano piegati alle minacce della ministro.

Parlava con i massimi vertici della redazione che acconsentivano di pubblicare la lettera sotto un titolo che avrebbe ingannato la censura.

Ovviamente, sarebbe bastato poco tempo perché il governo risalisse all’autore della lettera, ma questo non interessava al commissario che decideva di passare comunque i guai che ne sarebbero derivati, memore anche da una frase che lo aveva colpito da piccolo: “Gli esseri umani sono universalmente conosciuti come gli unici animali capaci di mentire, e se è vero che a volte lo fanno per paura e a volte per interesse, a volte lo fanno anche perché si sono accorti in tempo che era l’unico modo che avevano per difendere la verità”.

Il giorno dopo l’articolo usciva puntualmente sulla prima pagina.

Il giornale, che di solito vendeva poco, andava a ruba, fino a quando la censura procedeva a ritirarne tutte le copie.

Convinto del fallimento, il commissario si incamminava per la città quando, improvvisamente, sulla sua testa iniziavano a piovere fotocopie del giornale con il suo articolo.

Evidentemente, la popolazione non credeva le accuse rivolte alla donna.

Il giorno dopo, contento del non essere stato vittima di un blitz notturno, il commissario si recava al parco della statua con la brocca e si sedeva nella panchina dove aveva incontrato la moglie del medico.

Improvvisamente, un cecchino con la cravatta blu a pallini bianchi gli sparava in testa.

Pochi minuti dopo, la ministro dell’interno convocava una conferenza stampa per accusare i “biancosi” del vile assassinato dell’uomo che stava investigando su di loro.

Aggiungeva in tono lacrimoso: il prima possibile, il commissario defunto sarà insignito con la massima onorificenza della repubblica, ovviamente a titolo postumo.

Dopo la conferenza, la ministro dell’interno riceveva la chiamata del presidente della repubblica che la dimetteva dalla sua carica per avere esagerato uccidendo il commissario.

La mattina del giorno dopo, a casa della moglie del medico si presentavano dei poliziotti che sequestravano l’oculista per interrogarlo.

La donna si recava sul terrazzo.

Il cecchino con la cravatta blu a pallini bianchi gli sparava due colpi.

Poi sparava al cane delle lacrime per mettere fine al suo ululato.

“Il cane è arrivato di corsa da dentro, fiuta e lambisce il viso della padrona, poi allunga il collo verso l’alto ed emette un ululato da rabbrividire che un altro sparo tronca immediatamente. Allora un cieco domandò, “Hai sentito qualche cosa?”;

“Tre spari”, rispose l’altro, “ma c’era anche un cane che ululava. Ora ha smesso…, deve essere stato il terzo sparo”;

“Meno male, detesto sentire i cani che ululano”.

“Siete voi, sì, soltanto voi, i colpevoli, siete voi, sì, che ignominiosamente avete disertato dal concerto nazionale per seguire il cammino contorto della sovversione, della indisciplina, della più perversa e diabolica sfida al potere legittimo dello Stato di cui si abbia memoria in tutta la storia delle nazioni”

dal discorso del Presidente della repubblica agli abitanti della città colpevoli di avere votato in massa scheda bianca

Rodrigo Andrea Rivas

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