Venezuela: per uscire dalla crisi non possiamo appoggiare i fantocci del fantasma di Monroe

Venezuela: per uscire dalla crisi non possiamo appoggiare i fantocci del fantasma di Monroe

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La guerra è un massacro fra uomini che non si conoscono a vantaggio
di uomini che si conoscono ma evitano di massacrarsi reciprocamente”

Paul Valéry “Réponse au discours de M. le maréchal Pétain”, 31 gennaio 1931

Fino al dicembre 2017 il Venezuela presentava giganteschi deficit istituzionali e repubblicani. Tuttavia, continuava a celebrare elezioni ragionevolmente libere e competitive. Il governo utilizzava tutte le risorse alla sua portata, come fanno tutti i governi, ma c’era una presenza reale dell’opposizione ed i risultati erano verificati da istituzioni come il Centro Carter e l’ONU.

Se la democrazia può definirsi come un tipo di regime in cui si svolgono elezioni ma non si conosce in anticipo il vincitore, ed esiste un certo livello d’incertezza sui risultati, il Venezuela era una democrazia. Il chavismo è stato accusato di molte cose ma non di non fare elezioni e di non riconoscere le sue sconfitte nei pochi casi in cui questo è avvenuto. Viceversa, l’opposizione non ha mai riconosciuto le sconfitte e, come bambini capricciosi, ha l’abitudine di urlare alla frode quando perde, ossia quasi sempre.

Nel dicembre 2015 l’opposizione ha vinto in modo del tutto inatteso le elezioni all’Assemblea Nazionale, ottenendo una maggioranza di due terzi, sufficiente per riformare la Costituzione e bloccare il governo. Quindi, ha reso immediatamente noto che il suo scopo politico era costringere Nicolás Maduro a dimettersi.

Il chavismo, che aveva denunciato irregolarità nel processo elettorale malgrado fosse in grado di controllarlo, presentava allora alcuni ricorsi. Il Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ) ne accettava uno, e sentenziava con argomenti contestati dall’opposizione che le elezioni dovevano ripetersi nello Stato dell’Amazonas (4 deputati).

Poiché l’eventuale vittoria del governo per l’opposizione avrebbe significato perdere la maggioranza dei due terzi, questa non accettava la sentenza. Quindi, su richiesta del governo, il TSJ dichiarava l’Assemblea illegittima, e poco tempo dopo rendeva noto che ne avrebbe assunto le funzioni. L’evidente abuso di potere – apparentemente realizzato senza l’avallo di Maduro – era talmente ovvio che alla fine doveva fare marcia indietro.

All’impasse istituzionale si sommava una serie di manifestazioni – tra aprile e luglio 2016 – con oltre 100 vittime. Qualunque sia il parametro che si sceglie per misurarla, la repressione del governo, quella ufficiale e quella dei “collettivi” armati, è stata feroce. E non scherzava nemmeno la destra, che è arrivata a bruciare vivi dei chavisti trovati per strada.

Il 1° maggio 2017, Maduro annunciava la sua via d’uscita: le elezioni di un’Assemblea Costituente. Si sarebbero svolte con un sistema elettorale non contemplato dalla Costituzione vigente: una parte dei 564 costituenti sarebbero stati (lo furono) eletti da settori specifici della popolazione (contadini, operai, disabili, imprenditori ecc), un’altra dai municipi. Lo schema era stato appositamente ideato perché Maduro vincesse, anche perdendo.

Le opposizioni, compresa quella marginale alla sinistra del governo (“Plataforma ciudadana en defensa de la Constitución”, Piattaforma cittadina in difesa della Costituzione), decideva di non presentare candidature e per la prima volta non ci sono stati controlli indipendenti.

Secondo il CNE ha votato il 40% dell’elettorato. Ma l’elemento veramente grave è avvenuto in seguito, quando, contrariamente a quanto aveva fatto Chávez nel 1999, Maduro si è opposto all’ipotesi di sottoporre la nuova Costituzione ad un referendum. Quindi, l’Assemblea Costituente si è autoproclamata “originaria” (e cioè non rispondente a nessuno) e invece di scrivere la nuova Costituzione, funzione per la quale era stata eletta, ha assunto le funzioni dell’Assemblea Legislativa.

Sentendosi rafforzato, Maduro convocava le elezioni regionali per il 15 ottobre 2017. Avrebbe dovuto convocarle un anno prima, ma le aveva rimandate senza spiegazioni, temendo una sconfitta. Questa volta l’opposizione si è presentata normalmente, non ci sono state contestazioni di nessun tipo riguardo il processo elettorale e, contro tutti i pronostici, Maduro ha vinto a man bassa in 18 dei 23 Stati (Regioni) del Paese. Tutti i grandi nomi dell’opposizione sono stati sonoramente sconfitti e, come al solito, hanno urlato denunciando frodi. Tuttavia, nessuno è mai riuscito a esibire le “false schede” che avrebbero provato tali frodi.

In verità, Maduro aveva avuto ragione: a quel punto i rapporti di forza si erano davvero modificati. Avendone preso atto, il governo, che prima aveva rimandato le elezioni regionali, decideva di anticipare quelle presidenziali.

Argomentando che il CNE aveva posto restrizioni insuperabili – la convalida dell’iscrizione dei partiti e il divieto di usare questo nome imposto alla Mesa de Unidad Democrática (Tavolo per l’Unità Democratica) – una parte dell’opposizione, a questo punto impaurita a sua volta dai risultati attesi, decideva di non presentarsi. Considerando estremamente debole quest’argomentazione, una parte dell’opposizione di destra decideva di presentarsi comunque. Subiva una sconfitta durissima. La partecipazione era bassa per gli standard del paese (ma più alta di quella di altri Paesi dell’area, tra cui gli USA). Quindi, il 10 gennaio 2019 Maduro giurava di nuovo come presidente.

Riassumiamo per chi potrebbe essersi perso: il Venezuela arriva all’attuale situazione con un’Assemblea Legislativa legalmente costituita ma senza funzioni reali, un’Assemblea Costituente manifestamente illegale, e un presidente legittimo ma la cui legittimità è messa permanentemente in discussione fin da prima della sua rielezione.

L’insolita decisione di Juan Guaidó, l’autoproclamato “presidente incaricato”, e l’ancor più insolita decisione degli USA e di buona parte dei Paesi latinoamericani, “riconoscere” l’atto del predellino in versione caraibica, hanno acutizzato la tensione e approfondito la polarizzazione.

Incapaci di trovare una posizione comune e credibile (come nei Balcani e nella Libia), ma con un irrefrenabile prurito risolvibile solo menando popolazioni reputate più deboli, Francia, Germania, Spagna e poi Mogherini – Altra Rappresentante UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza – hanno dato a Maduro un ultimatum di 8 giorni “per realizzare nuove elezioni” (forse non sarebbe un male se prosperasse la moda degli 8 giorni. Potrebbero concedersi per lo sbarco dei 49 disgraziati sulla Sea Watch, il pagamento dei 49 milioni rubati da un partito di governo allo Stato italiano, una semplice perizia tecnica come quella legata ai costi della TAV, ecc). Va da sé: risalendo sui loro piccoli predellini domestici, si sono richiamati a valori e legami sostanzialmente inesistenti che a sentir loro giustificherebbe il colpo di sole di Guaidó. Pratici come di consueto, hanno pure aggiunto che questi principi costituiscono solide scuse per trattenere i soldi venezuelani nelle loro banche.

Abbandonando il folclore e tornando alle cose serie, a me pare che la domanda da porsi sia: fin dove arriva davvero la mano sinistra dell’impero?

In realtà, penso che se non decide un’invasione armata partendo dalle loro basi militari nei Caraibi, dal territorio colombiano o dal Brasile, decisione che probabilmente creerebbe un Vietnam all’ennesima potenza alle porte di casa (ma Trump è sufficientemente irresponsabile per non scartare totalmente questa ipotesi), la capacità d’ingerenza di Washington si limita alle sanzioni finanziarie e all’appoggio all’opposizione. Queste, pur non essendo poco, hanno effetto limitato a breve scadenza. Di fatto, poiché il Venezuela non è un’isola non la si può bloccare come Cuba; può continuare a sopravvivere in base alle sue pur diminuite esportazioni di petrolio, un bene che trova sempre acquirenti, anzitutto negli USA, principale acquirente del greggio venezuelano. Detto fuori dai denti: l’ingerenza esiste ed è forte, ma non sembra sufficiente per rovesciare Maduro pur se basta per trasformare la vita dei venezuelani in un inferno.

Il dramma venezuelano ha motivazioni fondamentalmente locali: un’economia fuori controllo (un milione per cento d’inflazione nel 2018), un deterioramento sociale drammatico (62% di povertà secondo l’indice elaborato dalle università), il tasso di omicidi più alto dell’America Latina (89 ogni 100mila abitanti), una drammatica mancanza di beni di prima necessità (grazie soprattutto all’embargo statunitense) ed una società in via di decomposizione (circa 2 milioni di emigrati in 2 anni).

Ciò malgrado, Maduro si è mantenuto al potere essenzialmente per 3 ragioni:

  1. Il controllo verticale della Fuerza Armada Bolivariana, che non è un “alleato” del governo, ma parte essenziale del dispositivo di potere.
  2. Le vestigia di legittimità che continua a conservare grazie alle formidabili conquiste sociali realizzate durante i governi di Chávez, e il rifiuto verso l’opposizione politica dei ceti popolari, il che spiega perché finora “i poveri non scendono dalle colline”. Questo appoggio sociale relativo si completa con la caotica, inefficiente ma enorme, rete di approvvigionamento alimentare legata al “Carnet de la Patria” (Tessera della patria), e al fatto che, più grazie all’iperinflazione che ad una decisione di politica economica, buona parte dei servizi pubblici – luce, metropolitana, internet – sono praticamente gratuiti.
  3. L’appoggio geopolitico di grandi potenze come la Russia e la Cina, e di poteri emergenti come l’ Iran e la Turchia, che hanno offerto assistenza finanziaria, energetica e militare nei momenti più critici, e dimostrato che il governo non è totalmente isolato. Il costo di questo appoggio non è poco. Si traduce in un debito di proporzioni mostruose e nell’ipoteca su buona parte delle risorse minerarie e d’idrocarburi del Paese.

In questo contesto, la sola possibile via d’uscita è una trattativa tra le due fazioni. In una situazione caratterizzata dal fatto che il vincitore arraffa tutto, una delle maggiori difficoltà si lega alla immunità, degli oppositori o dei funzionari chavisti se escono dal governo.

Perciò l’osannato uomo del predellino ha lanciato la proposta di amnistia, per ora riservata ai membri delle forze armate. Ma, poiché l’opposizione è animata da una feroce voglia di rivincita (per rinfrescare la memoria si può guardare il Brasile, l’Argentina o la Colombia), il chavismo ha più che fondate ragioni per temere che l’abbandono del governo non implicherebbe un passaggio pacifico all’opposizione parlamentare, ma una veloce scorciatoia verso le torture, l’ergastolo o l’esilio. Insomma, gli uni e gli altri sentono che non è in gioco solo il potere, bensì la pelle.

Ritorno all’inizio: in senso stretto, il Venezuela non è una dittatura. Non è un regime stalinista né un sistema di partito unico. Non ci sono violazioni di massa dei diritti umani. Persiste la libertà di espressione, pur limitata soprattutto ai media digitali. Maduro non è un autocrate, e la società può esprimersi elettoralmente, pur con i non piccoli problemi suindicati.

Allo stesso tempo, in Venezuela c’è una evidente discriminazione degli oppositori (diversi tra i loro dirigenti sono esiliati, inabilitati o in carcere), ed una crescente quantità di prigionieri politici, alcuni incarcerati solo per avere organizzato mobilitazioni pacifiche, per buona parte in condizioni inumane nella prigione gestita dai servizi d’intelligence. Fin dai tempi di Chávez, infatti, il militarismo è uno dei tratti del regime.

Com’è avvenuto in questi giorni, la repressione nelle strade ha le fosche e feroci tinte che in tutta la regione si osservano solo nell’attuale Nicaragua.

Penso, sapendo di non trovare grandi consensi, che il governo di Maduro abbia trasformato il Venezuela in un regime ibrido e ultra-corrotto, che combina elementi democratici ed autoritari, e muta in base al contesto internazionale, ai prezzi del petrolio, all’umore del governo e al rapporto di forza con l’opposizione.

Ma non penso – so – che tutti i paesi aiutati dagli Stati Uniti “a liberarsi” si sono trasformati in cimiteri o manicomi.

So che, come Bush, Trump non è un uomo dalle piccole trame. Trump pensa in grande, sa che il crimine paga quando è grande. Non è un piccolo artigiano del crimine come Jack lo squartatore. E, infatti, ha già mobilitato i suoi sicari maggiori, come il pluri-indagato Elliot Abrams. Alcuni contestano quest’analisi riferendosi al caso europeo e alla guerra al nazifascismo. È un caso assolutamente diverso. Ma, proprio perché tale, se non si vuole confondere un prurito passeggero con le emorroidi, richiederebbe un’analisi specifica. Ergo, pur essendo a conoscenza che il virus dell’ombelicocentrismo ha raggiunto una notevole diffusione, la rimando ad occasioni più propizie.

R. A. Rivas

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Appendice

Pubblico qui, per maggiore informazione, l’appello lanciato dalla “Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución”, grupo di opposizione da sinistra al governo Maduro, in cui confluiscono anche numerosi esponenti di primo piano dei passati governi di Chávez. Lo potete trovare qui.

DEFENDAMOS LA SOBERANÍA POPULAR Y QUE EL PUEBLO DECIDA!!!

Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución

Caracas, 24 de enero de 2019

Estratto:

“Ha sido el Departamento de Estado de EEUU quien abiertamente estableció el guión que está siguiendo al pie de la letra Guaidó al asumir como Presidente “interino”, contando con la mayoría de la Asamblea Nacional para validar, a través de un acuerdo, el proceso de transición, teniendo como telón de fondo el pronunciamiento del Grupo de Lima en el cual se resume la hoja de ruta de Trump para intervenir Venezuela, quien ha afirmado que tiene “todas las opciones sobre la mesa”, incluso la de la intervención militar.

Para completar la estratagema solo faltaba que Guaidó mostrara el respaldo popular que lo “legitimaría” como “Presidente” y con ese propósito se manipuló la figura de los “Cabildos Abiertos”, que siendo un mecanismo de consulta vinculante de alcance municipal, previsto en el artículo 70 de la Constitución, creó la falsa expectativa de que a través de esa consulta se legitimaría como “presidente interino”.

Más que cabildos, éstos fueron actos preparatorios de las movilizaciones del 23 de enero, en las cuales se buscaba demostrar la fuerza suficiente para “ungir” a Guaidó, quién tal cual lo hizo Carmona el 11 de abril de 2002, sorpresivamente se autoproclamó Presidente con el reconocimiento inmediato de EEUU y los países del Grupo de Lima, creando así una crisis de dualidad de poderes que peligrosamente nos coloca en ciernes de un escenario de violencia fratricida y guerra civil con participación internacional, que compromete la independencia y la soberanía de la Nación.

De esta manera, la fracción de oposición extremista impuso de nuevo al bloque opositor por la vía de los hechos la agenda Washington, defraudando la aspiración de la gran mayoría del pueblo venezolano de lograr una salida pacífica, constitucional y soberana a la crisis.

Mientras desde la Asamblea Nacional, Guaidó asumió funciones de Jefe de Estado y de Gobierno, al designar representante en la OEA y autorizar la ayuda humanitaria, desde Miraflores Maduro decidió romper relaciones diplomáticas con EEUU y dio un plazo de 72 horas para que sus funcionarios diplomáticos abandonen el país. Siendo dicha orden desconocida por Washington alegando que solo reconocen a Guaidó.

Así las cosas, cada vez está más claro que el único camino para preservar la paz y superar la crisis política institucional y, atender la emergencia económica y social, es el diálogo y la negociación responsable, entre la AN y el Gobierno, teniendo como premisa el acuerdo de adelantar un referéndum consultivo vinculante para que el pueblo se pronuncie si quiere o no la relegitimación de todos los poderes, con base en lo establecido en los artículos 70 y 71 de la Constitución.

México, Uruguay y el Secretario General de la ONU han planteado esa iniciativa que ha sido aceptada por el Presidente Maduro.

Ese diálogo debe contemplar el cese al estado paralelo, plenas garantías que permitan la realización, a muy corto plazo, de elecciones transparentes, rechazo a la intervención extranjera, plan económico de emergencia y recuperación nacional, cooperación internacional para atender la emergencia humanitaria, ley de amnistía, auditoría pública y ciudadana de la deuda y de la gestión pública y, cese a las sanciones económicas internacionales.

En ese sentido, llamamos a la oposición democrática que rechaza la injerencia externa y defiende el derecho a la autodeterminación de los venezolanos, a constituir un gran movimiento nacional que promueva el diálogo y la realización de un referéndum consultivo vinculante, para que sea el soberano el que decida, si quiere o no relegitimar todos los poderes.

Si esta convocatoria no se hace a través de un acuerdo entre la Asamblea Nacional y el Gobierno Nacional, podría realizarse, a través de la recolección del 10% de las firmas que exige el artículo 71 de la Constitución”.

 

Rodrigo Andrea Rivas

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