Quo Vadis Venezuela
I governi di Messico, Uruguay e dei paesi della Comunità dei Caraibi (CARICOM) propongono il Meccanismo di Montevideo come alternativa pacifica e democratica per il Venezuela. Photo @m_ebrard
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Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?
Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi?
Fino a che punto si spingerà [la tua] sfrenata audacia?
Marco Tullio Cicerone, 8 novembre del 63 a.C.
(Incipit ex abrupto della prima delle orazioni dette Catilinarie)
So bene che continueranno ad affliggerci a lungo ma, per stupida testardaggine, rivolgo l’incipit della prima orazione Murena al console dell’Impero Donald Trump e ai molti suoi consolini in giro per il mondo, in particolare a quelli venezuelani.
Questo intervento parte dal fatto che, da oltre una settimana, è stato superato il “D day”, ossia il sabato 23 febbraio in cui gli USA avevano pianificato l’inizio dell’occupazione del Venezuela a partire da un “concerto”.
Va da sé: il rischio non è stato superato definitivamente. L’ipotesi d’intervento sussiste ed è stata solo tamponata.
…per concludere definitivamente le ipotesi di guerra bisogna coinvolgere l’America Latina ed i Caraibi. La strada è quella indicata dal “Meccanismo di Montevideo” sostenuto da Messico, Uruguay ed i Paesi del Caricom
A chi sia interessato ad approfondire, scusandomi dell’auto-pubblicità, rimando agli interventi pubblicati sul mio blog qui e qui, dei quali riassumo solo alcune indicazioni:
1) nel Venezuela esistono tre poteri costituiti: l’Assemblea nazionale, con presidente temporale Juan Guaidó, costituita in modo legittimo; l’Assemblea costituente, eletta e dotata di poteri illegittimi in base alla Costituzione in vigore; un Presidente della repubblica, Nicolás Maduro, eletto in modo legittimo.
2) oltre alle formule democratiche, esistono altre forme di formazione dei governi. Ad esempio, se previamente consolidate, una rivoluzione o un colpo di Stato. Si può discutere sulla loro legittimità ma resta il fatto che gli atti di questi governi – nati formalmente illegittimamente – creano situazioni non reversibili sulle Costituzioni o sulle politiche economiche, ad esempio. Si può, si deve fare, dei contenuti e conseguenze di queste decisioni, ma a nessuno passa per la testa che la legislazione sovietica non sia esistita o che la Costituzione di Pinochet abbia smesso di esistere “solo” per il ristabilimento delle forme democratiche liberali (infatti, è un’aberrazione, ma è ancora lì).
L’opposizione venezuelana, oltre a Voluntad Popular (il partito di estrema destra di Leopoldo López e Juan Guaidó) e a Primero Justicia (di Henrique Capriles), non si è sommata al circo mediatico-golpista e mantiene un prudente silenzio. Nemmeno una delle quattro regioni controllate da Acción Democrática (AD) ha riconosciuto Guaidó. Particolarmente importante è il caso di Táchira, lo Stato al confine della Colombia la cui adesione era tra le principali scommesse degli USA e dei loro alleati.
3) tra queste formule non c’è quella di mettersi in piedi su una sedia e autonominarsi presidente. Né dalla giurisprudenza né dalla logica formale. È solo un’idea da pazzi che solo dei pazzi possono definire legalmente accettabile.
4) pur avendo molte critiche da muovere all’operato del governo venezuelano sul quale, a mio modesto parere, esiste una lettura sbagliata della sinistra, rifiuto la sentenza “Né con Trump né con Maduro”. La considero un gesto pilatesco che consegna al più forte, gli USA, ogni decisione. Penso che la soluzione debba essere politica e possa nascere solo dalla trattativa diretta tra le controparti venezuelane, magari aiutate da governi non belligeranti. Che si debba respingere ogni ipotesi neocolonialista, come quelle presenti anche in Europa. Ma, se il passaggio alle armi elimina ogni possibilità di ragionare – le armi sono fatte proprio per questo – e devo schierarmi, scelgo Maduro. Le ragioni sono a lungo spiegate nei testi a cui ho già rimandato.
5) del Venezuela, come di qualsiasi altra realtà contemporanea a noi lontana, conosciamo solo ciò che ci viene raccontato. Nel caso italiano e più in generale europeo, è il nulla, ossia è solo la fotocopia delle veline dettate dall’ufficio stampa di Washington. Soltanto un’acuta mancanza di pudore permette di spacciarle per notizie. Si diffondono perché non esiste un contraltare credibile, perché nell’inverno autocratico la paura è cosa solida e perché, in ogni momento, luogo e circostanza, le idee dominanti sono sempre quelle delle classi dominanti. Con gradi di responsabilità diversificati, i media organizzano l’inganno, per complicità o per ignoranza.
Nulla di nuovo se, come scrisse Eschilo cinque secoli avanti Cristo, “la prima vittima della guerra è la verità”.
Nulla di nuovo se, come scrissero Marx ed Engels nel 1848 (“Manifesto del Partito Comunista”), “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato e l’uomo è infine costretto ad affrontare con lucidità le reali condizioni della sua vita e le sue relazioni con i suoi simili”.
Oggi, però, ci è data la possibilità di conoscere anche altre letture. Ad esempio, della stampa ed i social latinoamericani. Non è che siano magnifici né che risolvano tutto. Certamente sono più impegnative dell’ascoltare Botteri e simili pappagallando da New York. Ma aggiungono fatti e fanno bene alla salute.
Anche se ci sarebbe molto altro da aggiungere e sono conscio di non avere motivato sufficientemente alcune affermazioni, passo al nocciolo di questo intervento.
Secondo il presidente colombiano, Iván Duque, il D Day, il 23 febbraio, avrebbe fatto implodere il regime di Maduro. Ma, malgrado Botteri, ai primi di marzo Maduro continua a governare il Venezuela. Guaidó non è riuscito ad aumentare i riconoscimenti diplomatici di cui disponeva quando è salito sul seggiolino, il cavallo di Troia dell’aiuto umanitario non è entrato in territorio venezuelano, gli USA hanno meno appoggio di prima per un intervento militare nell’America Latina e non sono riusciti a dividere le forze armate né il blocco politico chavista. L’opposizione venezuelana, oltre a Voluntad Popular (il partito di estrema destra di Leopoldo López e Juan Guaidó) e a Primero Justicia (di Henrique Capriles), non si è sommata al circo mediatico-golpista e mantiene un prudente silenzio. Infatti, tra le molte cose taciute, nemmeno una delle quattro regioni controllate da Acción Democrática (AD) ha riconosciuto Guaidó. Particolarmente importante è il caso di Táchira, lo Stato al confine della Colombia la cui adesione era tra le principali scommesse degli USA e dei loro alleati.
Il 23 gennaio quando Napo si è autoproclamato presidente, la Unione Europea ha concesso 8 giorni a Maduro per convocare nuove elezioni presidenziali. In caso contrario, ha insinuato Federica Mogherini, “responsabile degli esteri dell’Unione” con l’espressione corrucciata che si conviene ai “padroni sofferenti” (“effetto Fornero”), l’UE sarebbe stata costretta a riconoscere Guaidó. Forse sono troppo distratto, ma non mi sembra sia successo.
Il 23 febbraio, il concerto umanitario destinato a travestire l’ingerenza con le vesti di una legittima preoccupazione umanitaria, si è rivelato un fiasco.
Ai primi di marzo la guerra politica, economica e mediatica contro il Venezuela continua. Ma il golpe programmato per il 23 e/o il 25 febbraio è stato sconfitto. Le forze armate si sono mantenute leali al governo e il fallimento del “D Day” ha chiarito che il governo continua a mantenere il controllo sul Paese.
A posteriori, si può affermare che la sua sola eredità sia la violenza dei delinquenti che, a partire dal territorio colombiano e protetti dalla Squadra Mobile Antidisturbi (Esmad), hanno attaccato con bombe molotov la Guardia Nazionale Bolivariana e bruciato un camion. Per la precisione: tra i resti del veicolo non sono state riscontrate tracce di aiuti umanitari, ma solo resti di materiale destinato alla guerriglia urbana.
I monelli hanno allora rimandato il D Day di due giorni. Il 25 febbraio, a Bogotá, la riunione del cosiddetto “Gruppo di Lima” avrebbe preso decisioni definitive contro il governo venezuelano, senza escludere l’intervento armato. Lo ripeteva alla stampa il vicepresidente degli USA, Mike Pence, che avrebbe aperto la seduta pur se gli USA non fanno parte del Gruppo di Lima. Accanto a Pence, da bravo scolaretto, spuntava Guaidó.
Tuttavia, accadeva un fatto inatteso: i Paesi latinoamericani e persino la UE – mi auguro che Dio li sorprenda confessati – affermavano che, essendo un problema politico, la soluzione doveva essere politica, non militare. Escludeva la soluzione militare persino Hamilton Mourau, vicepresidente del Brasile di Bolsonaro: “Non abbiamo preso in considerazione, sotto nessuna circostanza, un intervento militare”. La loro scelta isolava Duque e gli Stati Uniti.
A fine febbraio arrivava il bonus track, la traccia definitiva di questo album dissonante, direttamente dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Russia e Cina ponevano il veto alla risoluzione proposta dagli USA di riconoscere l’Assemblea nazionale presieduta da Napoleone come la sola istituzione eletta democraticamente nel Venezuela.
Ai primi di marzo la guerra politica, economica e mediatica contro il Venezuela continua. Ma il golpe programmato per il 23 e/o il 25 febbraio è stato sconfitto. Le forze armate si sono mantenute leali al governo e il fallimento del “D Day” ha chiarito che il governo continua a mantenere il controllo sul Paese.
Guaidó è impegnato in un giro regionale. Colombia, Brasile e Paraguay l’hanno ricevuto come capo di Stato. Lenín Moreno, presidente dell’Ecuador, l’ha invitato a Quito. Tra un aeroporto e l’altro annuncia “nuove mobilitazioni” non meglio precisate.
Con il suo rientro di ieri in Venezuela, non si sa cosa farà il governo. Si ricorderà che i tribunali – controllati dai chavisti – gli avevano vietato l’uscita dal Paese. Forse sono troppo diffidente, ma continuo a pensare alla vittima sacrificale, ossia al fatto che gli USA decidano di eliminare un personaggio non più utile o, meglio, più utile da morto che da vivo. Si sa che si tratta di una loro pratica ricorrente.
Finora le sanzioni statunitensi si limitavano a punire persone con responsabilità di governo. Le nuove sanzioni contemplano invece il blocco degli attivi delle imprese pubbliche venezuelane all’estero e il divieto alle aziende statunitensi di acquistarne petrolio.
Per quanto riguarda il governo, i fronti aperti sono molti ma i principali sono due, che peraltro s’intrecciano.
Il primo è la necessità di valutare (e porre rimedio) ai danni provocati nelle forze armate dall’offensiva statunitense che finora ha provocato qualche centinaio di diserzioni. Sarebbero, secondo il governo colombiano, 320 i soldati che hanno abbandonato il Venezuela per entrare nel loro Paese. Poiché il governo colombiano potrebbe solo gonfiarla, una settimana dopo il D Day si può tranquillamente dire che non sono sufficienti ma, aggiungo, non sono neppure pochi.
Il secondo fronte è quello economico. Finora le sanzioni statunitensi si limitavano a punire persone con responsabilità di governo. Le nuove sanzioni contemplano invece il blocco degli attivi delle imprese pubbliche venezuelane all’estero e il divieto alle aziende statunitensi di acquistarne petrolio. Ciò non può che aggravare ulteriormente la già disastrata economia venezuelana perché colpiscono direttamente PDVSA, l’azienda pubblica che concentra circa il 95% dell’esportazioni. Caracas ha risposto spostando i suoi attivi all’estero in Paesi amici e ha traslocato la sede europea di PDVSA da Lisbona a Mosca per evitare possibili sanzioni da parte della UE. Che non si tratti di sospetti infondati lo provano i bulgari, i primi della classe come nella migliore epoca sovietica, che hanno già provveduto ad arrestare un uomo d’affari, naturalmente bulgaro, perché sospettato di amministrare soldi venezuelani. E dagli inglesi, che preoccupati dalla Brexit hanno fatto cassa espropriando il malloppo coi soldi venezuelani incautamente depositato presso le loro banche.
L’importanza delle sanzioni è enorme. Colpiscono la popolazione (da queste parti definita affamata solo grazie al governo) e possono rendere difficili le posizioni privilegiate degli alti comandi militari. Ovvero, al di là delle dichiarazioni buone per la RAI e per le altre allodole, lo scopo è sempre quello di portarli a ribellarsi, la popolazione per disperazione, i militari per il poco nobile scopo di mantenere i loro privilegi.
Ma gli effetti di queste misure richiederanno mesi e si suppone che il governo non sarà così sprovveduto da non prendere misure per evitarli.
Insomma: non disponendo il Napo di alcun potere politico od economico, non mobilitando la popolazione né potendo spaccare velocemente le forze armate, ossia non disponendo di alcun potere all’interno del Paese, l’appoggio della Colombia e degli USA alle sue pretese è, per ora, non risolutivo.
La conclusione più importante mi sembra però un’altra: la fase attuale della battaglia del Venezuela è stata vinta dal chavismo, ma per concludere definitivamente le ipotesi di guerra bisogna coinvolgere l’America Latina ed i Caraibi. La strada è quella indicata dal “Meccanismo di Montevideo” sostenuto da Messico, Uruguay ed i Paesi del Caricom: il dialogo tra le controparti venezuelane, senza condizioni previe.
Si può dubitare della sua sincerità, ma si deve constatare che Maduro ha già dichiarato più volte la sua disponibilità. Manca invece del tutto qualsiasi indicazione dell’opposizione venezuelana.
Cosa non farebbero gli USA per impedire questa eventualità? Essendo tendenzialmente un materialista e avendo qualche conoscenza di storia, se stessi nei panni del Napo mi guarderei le spalle dagli amici. Dai nemici, si sa, ti guarda Dio.
R. A. Rivas