L’ABC della situazione venezuelana a pochi giorni dall’inizio del probabile massacro  

L’ABC della situazione venezuelana a pochi giorni dall’inizio del probabile massacro   

Il vicepresidente USA Mike Pence saluta Carlos Alfredo Vecchio, a destra, sedicente ambasciatore del Venezuela negli Stati Uniti nominato da Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente del Venezuela. FOTO: AL DRAGO/BLOOMBERG NEWS

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“La propaganda, le urla, l’odio di una guerra arrivano invariabilmente
da coloro i quali non la stanno combattendo …”
George Orwell[1]

Scrivo questo testo ben sapendo che ogni punto di vista è solo la vista (o visione) da un determinato punto di vista e, quindi, che la testa di ognuno di noi è là dove i propri piedi si posano.

In questo senso, e solo in questo senso, riesco ad interpretare benevolmente slogan che altrimenti considererei sterili, come “Io sto con Maduro”, “Io sto con la popolazione venezuelana”, “Io sto con la democrazia”. Sterili poiché, come tutte le osservazioni “senza sé e senza ma”, ossia svuotate da ogni riferimento temporale, spaziale e analitico, equivalgono al nulla. A voler essere buono, sarebbe come dire, “a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata, a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie… Uh! com’è difficile restare calmi e indifferenti mentre tutti intorno fanno rumore”. Ma, aggiungo, il geniale ma in questo caso troppo ottimista Battiato, ci ricorda in seguito che “in quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore” [l’ottimista] per poi concludere che “sul ponte sventola bandiera bianca” [l’analista]. Certo, oltre alla genialità, il buon Franco è dotato di armonia[2].

L’immaginazione ci permette di viaggiare senza dover spostare i piedi dal posto che stiamo calpestando, ma non ci esime dal pensare alle conseguenze delle nostre idee e posizioni, dall’assumerci le conseguenze dell’azione propiziata sulla popolazione direttamente colpita.

Per quel che la conosco e immagino, come qualsiasi altra, la popolazione venezuelana non è fatta da kamikaze, da eroi o da aspiranti al martirio, bensì da normali persone disposte a sacrificarsi per le proprie idee con la ragionevole speranza di costruirsi un presente ed un futuro migliore e più degno.

Detto diversamente, penso che proprio quando la situazione diventa più difficile, dev’essere riaffermato e messo al centro di ogni elaborazione teorica, o di qualsiasi pretesa analitica, il rispetto alla vita in tutte le sue forme e manifestazioni.

Ma, confesso, forse lo penso solo perché ho superato da tanto i 30 inverni. Se, come credo ancora, “bisogna diffidare sempre da chi ha più di trent’anni”, posso anche accettare che considerare popoli fortunati quelli che non hanno bisogno di eroi, sia solo un segno di senilità. Detto positivamente, non sentendomi un eroe, non chiedo a nessuno di esserlo e, parafrasando Neruda, che con la chitarra in mano la musica è altra. I navigatori che persisteranno in leggere questo testo, sono quindi avvisati e mezzo salvati.

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Tra pochi giorni (23 o 26 febbraio), Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente dal suo seggiolino per ottenuta benedizione imperiale, dovrebbe schierare i suoi miliziani al confine con la Colombia, nel tentativo di costringere le Forze Armate Bolivariane (FAB) ad aprire il confine per far passare i cosiddetti “aiuti umanitari” spediti dagli USA. “Con sprezzo del pericolo e virile energia, posseduto da singolare tenzone”, ha detto davanti ad una foresta di telecamere (in un Paese nel quale l’informazione sarebbe sotto controllo): “Gli aiuti entreranno, sì o sì”. Dopo gli applausi virtuali per cotanto ardimento televisivo, gli impagabili media (impagabili per noi, perché troppo cari), ci hanno detto – non tutti – che nel frattempo la stessa Colombia, il Brasile e l’Olanda, avevano dichiarato di avere aperto altre zone di raccolta per gli “aiuti alimentari da destinare al Venezuela”[3]. Oh yeah.

“l’aggravamento del conflitto toglie spazio alle molte voci che, anzitutto nel Venezuela, propongono di generare le condizioni perché i venezuelani possano risolvere democraticamente il loro futuro.”

Esiste sempre la possibilità che la mobilitazione delle orde guaidiste si riveli un fiasco, ma se funzionasse, ne possono derivare tre situazioni diverse.

La prima è che Guaidó abbia successo. Implicherebbe che le FAB decidano, in toto o a maggioranza, di assecondarlo. Se le FAB cedono, la caduta di Maduro sarebbe vicina, se non imminente. Non credo affatto che i suoi alleati esterni siano disponibili a correre dei rischi per salvarlo (salvo i cubani, gli unici ad averlo fatto in altre circostanze ma, anche, in un’altra epoca storica), e sia la teoria che la storia mi dicono che contro un esercito compatto le pietre e la volontà di lotta della popolazione non bastano. La Intifada, le Intifade, sono eroiche e ammirevoli, probabilmente la sola possibilità che ha per esprimersi un popolo sottomesso, schiacciato, represso e affamato, per dimostrare la sua vitalità e dignità, per far vedere anzitutto a sé stesso che merita un futuro, ma non mi sembra abbiano migliorato la sorte materiale dei palestinesi[4].

Se le FAB si dividono, ciò che segue è la guerra civile, la peggiore tra tutte le guerre immaginabili.

La seconda è che la compattezza delle FAB costringano alla ritirata gli ustascia in salsa caraibica[5], noti pure come i miliziani di Guaidó. Difficilmente avverrebbe in modo pacifico, e cioè senza vittime. In questo caso, il mancato successo dell’apertura del confine sarebbe solo un altro capitolo cruento di una guerra di movimento ulteriormente esacerbata.

La terza è lo scontro diretto tra i legionari e le FAB. Non ho dubbi sull’esito della scaramuccia, per gli stessi motivi suindicati. So anche che le prime vittime di questa fase, nuova, rappresenterebbero il preludio della guerra civile e il pretesto per un intervento esterno. Tra l’altro, da giovedì 14 febbraio, i servizi cubani parlano di movimenti di truppe statunitensi a Puerto Rico, Repubblica Dominicana e altre isole delle Antille. Senza considerare il comando sud della Nato, le truppe della Colombia e quelle brasiliane.

Se le spaccature nelle FAB non sono significativamente importanti, si aprirebbe un lungo scontro di di notevoli dimensioni e ripercussioni continentali. Per qualcuno siamo addirittura vicini alle 24:00, usando la metafora dell’orologio nucleare che a mezzanotte indicherebbe l’inizio di un conflitto tra le superpotenze la cui prima ripercussione sarebbe la fine del mondo così come lo conosciamo.

Non sono così pessimista perché, come già osservato, non penso che cinesi e russi rischino il tutto per tutto per difendere il Venezuela. E questo li rende più responsabili di Trump, che come i suoi imitatori italiani in sedicesimo, sembra disponibile a tutto “per qualche voto in più”. Mi rendo conto dell’assurdo che rappresenta ragionare su questo (qualche voto in più rischiando di eliminare la popolazione o lasciando morire in mare migliaia di persone). Forse, lo ammetto, il mio “ottimismo” deriva solo dal fatto che penso sia sempre meglio lasciare alla vita lo sporco lavoro di portarci alla morte, individualmente e collettivamente.

I rischi di guerra si moltiplicherebbero all’ennesima potenza se tra le vittime, non necessariamente mortali, si trovasse lo stesso Guaidó. Non lo dico per cinismo, ma perché si tratta di una figura prescindibile per gli statunitensi, come lo sono sempre stati tutti i loro alleati. È quasi risibile, ma da questo punto di vista i primi a dover preoccuparsi della sua incolumità sono proprio i partigiani di Maduro. “La vita ti dà sorprese, sorprese ti dà la vita”, canta “Pedro Navaja” nello straordinario brano con cui il panamense Rubén Blades trasformò il son cubano nella salsa newyorchese[6].

“il conflitto ha perso la sua condizione di “affare interno” del Venezuela, e oggi coinvolge almeno tutta la regione. Gli USA intendono ricuperare il pieno dominio del loro cortile, le classi dominanti locali seppellire tutte le domande popolari emerse durante il decennio precedente”

Continuo a pensare che una soluzione non cruenta implichi necessariamente una trattativa, e penso che la migliore opzione possibile sia quella indicata dalla “Piattaforma cittadina in difesa della costituzione”.

Tuttavia, l’aggravamento del conflitto toglie spazio alle molte voci che, anzitutto nel Venezuela, propongono di generare le condizioni perché i venezuelani possano risolvere democraticamente il loro futuro. Ciò non annulla l’indiscutibile legittimità di questo principio, ma il problema è la sua implementazione, poiché se vince il golpe, quest’aspirazione sarebbe definitivamente seppellita. Detto senza perifrasi: la vigenza della sovranità del Paese e la difesa dei diritti popolari richiedono anzitutto la sconfitta delle squallide marionette.

Aggiungo: il conflitto ha perso la sua condizione di “affare interno” del Venezuela, e oggi coinvolge almeno tutta la regione. Ciò poiché gli scopi della destra sono molto precisi: gli USA intendono ricuperare il pieno dominio del loro cortile, le classi dominanti locali seppellire tutte le domande popolari emerse durante il decennio precedente.

Ovvero: nel Venezuela si lotta per frenare o allargare questa ondata reazionaria continentale (e non solo).

Per quanto mi riguarda, la drammaticità di questa prospettiva non attenua nessuna delle obiezioni alle politiche praticate dal governo chavista, che reputo ben lontano dall’immaginario costruito dalle sinistre all’estero. Ma penso che oggi sia indispensabile collocare queste critiche in un comune campo di battaglia contro i golpisti.

Lungo il suo percorso storico, il chavismo si è reso colpevole di tre crimini che hanno portato alla situazione attuale.

Il primo è stato la gestione catastrofica dell’economia e della politica interna, caratterizzate dell’affermarsi di un nuovo clientelismo, di un’enorme corruzione, e con Maduro, di un aumento della repressione.

Per lungo tempo i governi del Venezuela sono stati incapaci di diversificare un’economia che aveva nel petrolio la sola fonte di reddito. Era più facile importare tutto, in un Paese dove l’80% della popolazione non contava assolutamente nulla. Il 20% restante, l’oligarchia ed i suoi assistenti ben oliati, incassava tutti i benefici di un’economia che aveva il suo centro a Miami. Quando l’80% scendeva dalle colline a richiamare la sua parte, veniva schiacciato, come avvenne nel caracazo del 1989, un massacro che coincise temporalmente con quello di Piazza Tiananmen, ma non trova mai qualche ricordo sui media. Ma, al di là di qualsiasi altra considerazione sulle caratteristiche del processo, bisogna affermare che il chavismo non ha innovato a questo riguardo, ovvero che non ha diversificato l’economia riducendo la dipendenza dal petrolio, né tantomeno introdotto una nuova cultura produttiva.

Il secondo è stato distribuire socialmente i redditi petroliferi tra quell’80%. Questa novità senza precedenti ha allarmato l’oligarchia americana (del Nord e del Sud), ivi inclusi quei ceti della popolazione venezuelana comodamente installati nell’economia miamicentrica.

È stato questo secondo crimine a trasformare il governo di Chávez in un governo maledetto. Pur miscelato a nuovi privilegi e scandalose corruzioni burocratiche, si trattava comunque di un cattivo esempio per tutto il continente. I paragoni storici non mancano.

Scrive Naomi Klein, e in questo la situazione del Venezuela somiglia alla storia del Cile di Allende: “la minaccia rappresentata da Allende non aveva nulla da spartire con quanto Washington sosteneva pubblicamente (era troppo vicino all’URSS, era un falso democratico che avrebbe trasformato il Cile in un Paese totalitario). La vera minaccia era il rischio di diffusione della democrazia sociale… L’URSS era l’uomo nero necessario. Era facile odiare Stalin, ma ciò che rappresentò sempre la vera minaccia, era l’idea del socialismo democratico”[7].

Ha detto il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a proposito dei Paesi da dove proviene l’emigrazione africana e centroamericana, “they are shithole countries”, sono dei posti di merda.

E nel 1913, William Jennings Bryan, allora Segretario di Stato di Woodrow Wilson, commentava divertito: “Dio mio, pensate, ci sono negri che parlano francese”[8].

Chávez rivendicava di essere un mulatto. Al di là delle formalità, il fatto è che per buona parte dei trogloditi che chiamiamo classe dirigente i mulatti non sono del tutto umani. Lo indica lo stesso nome derivato dal francese “mulâtre” e dallo spagnolo e portoghese mulo. Loro pensano di essere uomini e donne normali ma ad un Occidente monoliticamente razzista (almeno nelle sue classi dirigenti), probabilmente piacerebbe ritornare ai bei tempi raccontati da Noam Chomsky: “Appendevano gli uomini con la testa in giù, li affogavano dentro ai sacchi, li crocifiggevano sulle assi, li seppellivano vivi, li schiacciavano nei mortai… li obbligavano a mangiare merda… li abbandonavano vivi ad essere divorati dagli insetti, o sui formicai, li legavano ai pali nelle paludi per farli mangiare dalle zanzare… li gettavano in pentoloni di sciroppo di canna bollente… li scorticavano con la frusta… per ricavare quelle ricchezze che diedero alla Francia il biglietto d’ingresso nel «club dei ricchi»“[9]. Oggi, sostengono alcune anime belle che poi vendono armi ai sauditi per bombardare lo Yemen, il colonialismo sarebbe il franco CFA, così escludendo tutti gli altri colonialisti. Ma, senza trascurare il fatto che si tratta di una componente del colonialismo, mi facessero il piacere! È roba da fascisti molto liberali.

“Questo intervento esterno, accanto al sabotaggio interno e al calo (alla metà) dei costi del petrolio, ha contribuito al deterioramento economico e accentuato ulteriormente i disastri provocati dall’azione del governo. Questa situazione ha costretto man mano il chavismo a rafforzare i rapporti economici con Cina e Cuba (anche con altri Paesi, ma questi sono quelli che contano) per recuperare le perdite.”

Torniamo a noi. Il tentativo di cacciare il governo (anche Maduro è mulatto e per di più ex camionista) è passato dalla fase di progetto a quella della realizzazione fin dal 2002, quando Chávez era saldamente al governo.

A quell’epoca, il governo della repubblica bolivariana godeva di maggiori appoggi e consensi interni, ma ciò non fu ostacolo per un tentativo golpista appoggiato dagli Stati Uniti, nonché da buona parte dei governi europei (tra cui l’Italia governata dal centrosinistra), e latino-americani (tra cui il Cile altrettanto governato dal centrosinistra).

Il 13 aprile 2002, Omero Ciai, “l’esperto di America Latina” del quotidiano italiano di centrosinistra “La Repubblica”, scriveva con malcelato piacere:

“A meno di ventiquattro ore dalla rivolta popolare e dalle vittime di giovedì, il Venezuela ha un nuovo presidente provvisorio. È Pedro Carmona, 60 anni, capo della Confindustria locale. Dovrebbe rimanere alla guida del governo provvisorio per alcuni mesi, fino alle prossime elezioni. L’ ex presidente Chávez, arrestato l’altra notte dai comandanti in capo delle Forze armate, è stato portato nella principale base militare del paese. Per lui si prevede un prossimo esilio, forse a Panama […]. Caute le reazioni diplomatiche nei paesi vicini. La maggior parte non hanno ancora riconosciuto il nuovo governo ma, a parte Cuba, lo faranno presto. Positiva invece la reazione della Casa Bianca, che approva. Fatto sta che la rovinosa caduta di Chávez è la conseguenza di un braccio di ferro in atto da quattro mesi con un’opposizione che è cresciuta con il passare dei mesi. Se, all’inizio, contro di lui c’erano soprattutto l’associazione degli imprenditori e una parte della classe media venezuelana, negli ultimi tempi Chávez aveva perso tutti gli alleati e, nel fronte che ha spinto i militari ad agire, c’erano alla fine anche i sindacati e molti di quei poveri che tre anni fa l’avevano portato al potere […]. Chávez nel paese del petrolio era un personaggio scomodo fin dall’inizio, soprattutto per la Casa Bianca. Il suo problema però è stato che nel giro di tre anni è diventato scomodo anche per il Venezuela. […] A poco a poco s’è rivelato per quello che era: un dilettante con molta fortuna. Dilettante in economia, dilettante in politica e alla fine anche in comunicazioni di massa. È facile capire che un presidente a reti unificate, che parla in tv diverse volte alla settimana di tutto quello che vorrebbe fare, alla fine stufa. Che in politica e in economia bisogna raggiungere dei risultati e che anche per fare una rivoluzione ci vuole un bel po’ di consenso. Tre anni fa Chávez ne aveva moltissimo. Ieri, quando i generali, che fino al giorno prima erano stati al suo fianco, lo hanno portato via dal palazzo, gran parte di quel consenso lo aveva perduto lungo la strada. Egli è stato molto più vittima di sé stesso che di qualsiasi complotto – militari, industriali, americani – si possa o si voglia immaginare”.

I fatti successivi hanno dimostrato che l’esperto confondeva i propri desideri e opinioni con la realtà. Lo stesso giorno in cui si pubblicava questo obiettivo servizio giornalistico, un’insurrezione popolare, appoggiata da settori delle Forze armate, rovesciava i golpisti e riportava Chávez alla presidenza della Repubblica. Pur controvoglia, i media hanno dovuto raccontare che “centinaia di migliaia di giovani, di lavoratori, di disoccupati, provenienti dai quartieri popolari di Caracas, marciavano verso il palazzo di Miraflores, sede della presidenza”. Che, “in seguito a queste mobilitazioni, diverse guarnigioni e reggimenti delle Forze armate dichiaravano di non riconoscere i golpisti”. Che “scontri violenti e saccheggi sconvolgevano la capitale e le altre principali città, mentre i manifestanti proclamavano di voler «difendere la rivoluzione» e di essere disposti a «morire per Chávez»”. Che “in poche ore i manifestanti prendevano possesso del palazzo presidenziale costringendo le Forze armate golpiste a togliere l’appoggio a Carmona”. Infine, che “grazie ai movimenti sociali Chávez ritornava dalla caserma sull’isola caraibica dove era stato tenuto prigioniero, per riprendere possesso del suo incarico”[10].

Sconfitto il golpe, le sanzioni contro il chavismo iniziarono nel 2004[11].

“Tutti i precedenti ci dicono che gli statunitensi ed i loro “alleati” non si fermeranno per evitare una guerra, e sappiamo che poi metteranno in atto grandi bugie coperte dall’appello in difesa della democrazia e i diritti umani

Questo intervento esterno, accanto al sabotaggio interno e al calo (alla metà) dei costi del petrolio, ha contribuito al deterioramento economico e accentuato ulteriormente i disastri provocati dall’azione del governo. Questa situazione ha costretto man mano il chavismo a rafforzare i rapporti economici con Cina e Cuba (anche con altri Paesi, ma questi sono quelli che contano) per recuperare le perdite.

Il terzo crimine commesso dal chavismo è stato che non solo i redditi petroliferi sono stati distribuiti a beneficio dei poveri, anche scontando gli imbrogli clientelari, ma che le prime riserve mondiali di greggio sono state messe in sintonia con gli interessi della Cina, sola potenza emergente che gli Stati Uniti prendano sul serio. Per di più, Cuba ne ha ricavato vero e proprio ossigeno per mantenere la sua coraggiosa – ma molto caramente pagata – storia di dignità continentale. Infatti, proprio rovinare Cuba è, penso, il secondo motivo determinante dell’atteggiamento imperiale.

Per capire la situazione ed il terrificante scenario che si sta preparando, si deve distinguere tra ciò che importa e ciò che non importa.

La “democrazia” o il “dibattito costituzionale” sulla legittimità di Maduro o di Guaidó non sono importanti. E comunque, anche uno studente al primo anno di giurisprudenza (oltre al senso comune) definirebbe folcloristica l’autonomina a presidente della repubblica. Da parte mia, se devo proprio immaginare un precedente, mi vengono in mente soltanto i tanti Napoleone presenti in qualsiasi manicomio.

Non sono importanti neppure i crimini e soprusi attribuiti a Maduro. Prova ne è l’Arabia Saudita, che pochi mesi fa ha fatto tagliare a pezzi un oppositore (con la cittadinanza statunitense) all’interno di un proprio consolato ad Istanbul. La decisione è stata presa dal capo del governo (il principe ereditario Mohammad Bin Salman) ma, da quanto mi risulta, nessuno statista europeo o statunitense si è neppure incrinato il fondotinta. Diciamo una banalità: ciò che importa è il petrolio, di cui il Venezuela possiede le maggiori riserve al mondo.

Ma gli USA ed i loro alleati sono più sofisticati di un pirata qualsiasi, e senza essere passati da Eton, cercano di apparire educati come Sir Francis Drake. Al di là del loro linguaggio mellifluo, però, oltre a garantirsi il bottino – il petrolio – intendono mettere definitivamente fine a due processi: i cattivi esempi sociali, anche quando sono parzialmente fallimentari, e l’indisciplina geopolitica, che danneggia, o quantomeno ostacola, il diktat imperiale.

“Della sofferenza della gente, il primo crimine che sarebbe stato commesso da Maduro, non gliene frega un accidente. Non credo che avvenga, ma magari l’opposizione venezuelana lo capisse prima che sia troppo tardi”

Un paio di settimane fa, il mio precedente articolo sul Venezuela ha ricevuto alcune critiche anche dagli ambienti del mondo della sinistra in Italia. Tra le altre cose, essendo sudamericano, sarei vittima di antiamericanismo “d’antan” e, tra le righe, faticherei a capire lo spirito o gli schemi europei. Per evitare di perdere tempo, questa volta cito un articolo pubblicato il 30 gennaio sul Wall Street Jounal, giornale che presumo sia difficile considerare antiamericano. Il WSJ intitola: “Il cambiamento di regime nel Venezuela è il primo passo per stabilire un nuovo ordine nell’America Latina”. E nell’articolo viene specificato come i passi successivi saranno il rovesciamento dei governi di Cuba e Nicaragua, e di impedire la crescita delle posizioni di Russia, Iran e Cina nella regione.

Come sempre, seppur abbondano i sorpresi, non si può dire che ci siano sorprese. Infatti, già nel novembre 2018 il consigliere per la sicurezza di Trump, John Bolton, aveva specificato: “Lo scopo della nostra politica è mettere fine ad ogni influenza cinese, russa e iraniana nella regione. Intendiamo spezzare il legame tra Venezuela e Cuba e rovesciare i loro governi”.

Per questa serie di crimini, sociali e geopolitici, è in fase ultimativa la preparazione di una violenza inaudita che ha come bersaglio il governo venezuelano e come vittime predestinate fondamentalmente i poveri venezuelani (poveri in senso economico-sociale, va da sé).

Si tratta di quanto abbiamo già potuto osservare in Libia e Iraq. Non a caso, sempre Bolton ha detto che “Maduro farebbe bene ad approfittare dell’amnistia per fuggire all’estero. In caso contrario potrebbe finire a Guantanamo”.

Della sofferenza della gente, il primo crimine che sarebbe stato commesso da Maduro, non gliene frega un accidente. Non credo che avvenga, ma magari l’opposizione venezuelana lo capisse prima che sia troppo tardi.

Tutti i precedenti ci dicono che gli statunitensi ed i loro “alleati” non si fermeranno per evitare una guerra, e sappiamo che poi metteranno in atto grandi bugie coperte dall’appello “a difendere la democrazia ed i diritti umani”.

In seguito al monumentale insuccesso degli Stati Uniti riguardo il cambiamento del regime in Siria, alla serie di fallimenti in Libia, e alla necessità di aprire una trattativa con i Talebani in Afghanistan per mettere fine alla guerra più lunga e costosa mai fatta dagli USA in tutta la sua storia (17 anni di guerra, oltre 1.000 miliardi di dollari spesi, 4mila vittime tra soldati e contractors, 20mila feriti), sembra che i falchi di Washington vogliano concentrarsi in America Latina. Il Brasile di Bolsonaro è stato il loro primo successo.

Ecco l’urgenza di costruire un movimento di opposizione alla guerra contro il Venezuela. Come ho provato a chiarire, non si tratta di “difendere Maduro”, come sostengono quelli che guardano il dito che punta alla Luna. Si tratta invece di usare tutti i mezzi della mobilitazione popolare per imporre una trattativa che eviti gli omicidi di massa che l’Impero del caos vorrebbe scatenare.

A mo’ di postdata: probabilmente non meritano maggiore attenzione perché malgrado la loro sicumera pensano solo a comando, ma noto che buona parte di coloro che una volta si dichiaravano comunisti e/o progressisti, vuole avere un contratto da comparsa in questo dramma. Probabilmente lo fanno, come fece il Duce nella “campagna di Russia”, perché pensano ad una vittoria facile che garantirebbe un riconoscimento della loro qualità di vassalli del bellicismo trumpiano.

Guardando la recente discussione sul Venezuela nel Parlamento italiano, non ho potuto fare a meno di notare Piero Fassino, già noto come il segretario del PDS incautamente sorpreso mentre domandava a Consorte: “E allora, siamo padroni di una banca?”, ferventemente esagitato nell’emulazione del “Piccolo Bush”.

Penso che, anche in questi tempi difficili, ci siano due questioni di principio senza le quali non si può costruire nulla che valga la pena per impegnare la sinistra nel Terzo millennio. Sono due questioni che definiscono e differenziano la sinistra dalla destra: l’opposizione al bellicismo imperiale ed al neoliberismo.

Mi fa male vedere che gente proveniente, come Fassino, dal PCI, è in tutti e due i casi formalmente schierato a destra. Naturalmente è un suo diritto, ma anche una pessima notizia per il futuro dell’Italia, nonché per le alleanze da costruire se si vuole fermare la deriva impressa al Paese da una destra rivitalizzata che ha il vento, penso provvisoriamente, a favore.

Da buon sudamericano non dotato dello “spirito europeo”, confesso che Fassino mi ricorda un tango e una vignetta.

In “Cuesta abajo en la rodada”, Carlos Gardel canta: “Ahora, cuesta abajo en mi rodada/ las ilusiones pasadas/ ya no las puedo arrancar./ Sueño, con el pasado que añoro/ el tiempo viejo que hoy lloro/ y que nunca volverá”[12].

In una intervista del 2001, il nostro afferma: “Io sono nato a Torino e sono sabaudo. Sono alto e magro e ho questa immagine un po’ austera, un po’ calvinista, tipica di chi è nato, vissuto e cresciuto in una città che è forgiata dalla cultura e dall’etica del lavoro. Una città fatta di understatment, dove nessuno deve mai superare un certo limite perché sennò viene considerato stravagante”. Presumo sia questo lo spirito europeo ma, forse, bisognerebbe spiegarglielo ai torinesi che non capendolo l’hanno trombato (non sarà che Torino è stata invasa da sudamericani?).

Tuttavia, confesso di godere ricordandola, a me piace la spiegazione del settimanale satirico livornese “Il Vernacolare” che nel 2002 si chiedeva in copertina: “Ma, Fassino, è così o si fa le seghe?”.

R.A. Rivas

16 febbraio 2019

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[1] George Orwell, “The War Commentaries”, W. J. West, Londra 1985. Tr. it. “Cronache di guerra”, Leonardo, Milano, 1991.

[2] Franco Battiato, “Bandiera bianca”, dall’album “Povera patria”, 1981.

[3] Nel caso olandese si parla di Curaçao, un isolotto di 444 kmq a circa 50 km della costa nordoccidentale del Venezuela. È una colonia olandese nelle Antille ora con un nome più politicamente corretto per le allodole: “Territorio autonomo del Regno dei Paesi Bassi”.

[4] La guerra, non potrebbe essere diversamente data la sua ricorrenza, è soggetto di studio da diversi secoli. Per chi fosse interessato, consiglio due testi classici. Il primo è “L’arte della guerra”, un trattato di strategia militare attribuito al generale Sun Tzu, vissuto in Cina probabilmente fra il VI e il V secolo a.C. Tra le sue molte massime ricordo: “L’arte della guerra consiste nello sconfiggere il nemico senza doverlo affrontare”. Vedere Sun Tzu, ”L’arte della guerra”, a cura di Riccardo Fracasso, introduzione di Wu Ming, TEN, Roma, Newton & Compton, 1994. Il secondo, “Della guerra” (Vom Kriege), di Carl von Klausewitz, fu pubblicato per la prima volta nel 1832 ma non è stato completato per la morte precoce dell’autore. Da quest’ultimo testo cito la celebre massima: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. Vedere Carl von Clausewitz, “Della Guerra”, Mondadori, Milano 1997.

[5] Per la precisione, il riferimento è agli ustascia di Ante Pavelić. Il termine originale, derivato dal verbo croato ustati o ustajati, “alzarsi in piedi, insorgere, ribellarsi”, venne inizialmente usato dagli slavi balcanici per indicare coloro che lottavano contro i turchi. Solo a partire dal 1929 Ante Pavelić lo utilizzò per designare gli appartenenti al movimento nazionalista e fascista croato di estrema destra, alleato dei nazisti tedeschi e fascisti italiani nella seconda guerra mondiale, che si opponeva al Regno di Jugoslavia dominato dall’etnia serba.

[6] “Pedro Navaja” è una canzone salsa composta da Rubén Blades e interpretata dallo stesso con il portoricano Willie Colón nel 1978. Fa parte dell’album “Siembra”, il disco più venduto della storia della salsa. Racconta la storia del magnaccia Pedro Navaja (Pietro Rasoio) e della prostituta Josefina Wilson che si ammazzano a vicenda nel viejo barrio (vecchio quartiere) di Bowery Side a New York: “Y créanme gente que aunque hubo ruido nadie salió. No hubo curiosos, no hubo preguntas, nadie lloró. Sólo un borracho con los dos cuerpos se tropezó, cogió el revolver, el puñal, los pesos y se marchó. Y tropezando se fue cantando desafinao, el coro que aquí les traje dirá el mensaje de mi canción: La vida te da sorpresas, sorpresas te da la vida ¡ay, Dios! La vida te da sorpresas, sorpresas te da la vida ¡ay, Dios! Pedro Navaja matón de esquina, el que a hierro mata a hierro termina”

[7] Naomi Klein, “The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism”, Knopf Canada 2007. Tr. it.  “Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri”, Rizzoli, Milano 2007.

[8] Paolo Enrico Coletta. “William Jennings Bryan: Political puritan, 1915-1925”. University of Nebraska Press, 1964

[9] Noam Chomsky, “Year 501 the Conquest Continues”, South End Press, Boston 1993. Ed. it. “Anno 501. La Conquista continua. L’epopea dell’imperialismo dal genocidio coloniale ai giorni nostri”, Gamberetti Editrice, Roma 1993.

[10] Tutti i brani sono presi letteralmente dai quotidiani italiani dell’epoca. Per una cronaca completa di ciò che è stato il tentato golpe di Stato venezuelano del 2002, si può consultare il documentario “La revolución no será transmitida”, in spagnolo e inglese, disponibile in versione completa su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=Cko8R2ZSEzE&t=1783s. Il filmato è stato girato da un gruppo televisivo irlandese – Radio Telefís Éireann – che si trovava nella sede della presidenza (Palacio de Miraflores). Le immagini non lasciano dubbi sulla natura e obiettivi del golpe.

[11] Per approfondimenti vedere il documento della Unidad Debates Económicos del “Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica” (CELAG), “Las consecuencias económicas del boicot a Venezuela”, consultabile in: https://www.celag.org/consecuencias-economicas-boicot-venezuela-resumen/ Il documento dimostra oltre ogni ragionevole dubbio che all’origine della crisi venezuelana c’è lo strangolamento economico al quale il Venezuela è stato sottoposto dagli USA e dai loro alleati.

[12] Ora, rotolando in discesa, le illusioni superate non riesco a cacciare via. Sogno, con il passato che mi manca, il tempo vecchio che piango, e che mai ritornerà.

Rodrigo Andrea Rivas

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