Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (I)
Sul gigante Tom e alcune definizioni elementari
Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta.
Charles Dickens, “Una storia tra due città” (1859)
Ho molto rispetto per l’idea del reddito di cittadinanza. E, una grande ammirazione per il suo autore. Colgo l’occasione per parlarne brevemente nel primo capitolo di un ragionamento più lungo che pubblicherò in questo blog nei prossimi giorni.
Correva il lontano 1797 quando il rivoluzionario internazionalista Thomas Paine[1], proponeva il “dividendo di cittadinanza”, tramite il quale tutti i cittadini avrebbero ricevuto regolarmente degli introiti (“dividendi”) dalle entrate percepite dallo Stato per l’affitto, il noleggio o la vendita delle risorse naturali destinate ad uso privato. “Agrarian Justice” è considerata unanimemente come la prima proposta di un sistema di protezione sociale negli USA ancora oggi. Scriveva Paine:
Allo stato naturale, la terra era proprietà comune della razza umana […] Dal fatto che ogni uomo, in quanto abitante della terra, sia un suo proprietario collettivo allo stato naturale, non deriva necessariamente che sia un proprietario collettivo della terra coltivata. Una volta accettata questa idea, il valore aggiunto dalla coltivazione è diventato proprietà di coloro che l’hanno prodotto, di coloro che l’hanno ereditato o di coloro che l’hanno acquisito. Ma, poiché la terra non aveva proprietario originalmente […], ogni proprietario di terreni coltivati deve pagare alla comunità una rendita del suolo per il terreno che occupa. Lo scopo è creare un fondo nazionale, dal quale si pagherà ad ogni persona, quando raggiunga i ventuno anni, quindici sterline, a parziale compenso per la perdita della sua eredità naturale in conseguenza dell’introduzione del sistema di proprietà territoriale. Da questa rendita del suolo proverranno i fondi per questo piano di sicurezza sociale.
Naturalmente, idee e prosa di Paine vanno analizzate considerando che scriveva alla fine del ‘700. Ingenerosamente, alcuni critici sedicenti marxisti l’hanno in seguito rimproverato per non essersi mai dichiarato socialista. Preferisco di gran lunga ricordare quanto canta Bob Dylan in “As I Went Out One Morning” (“Mentre uscivo una mattina”, seconda traccia dell’album “John Wesley Harding”, 1967): “As I went out one morning / To breathe the air around Tom Paine’s, / I spied the fairest damsel / That ever did walk in chains”[2]
Comunque sia, a scanso di equivoci sulle sue idee politiche, mi pare basti ricordare quanto Paine scriveva nel suo “I diritti dell’uomo” (The rights of man”, 1791):
È impossibile che governi come quelli che finora sono esistiti nel mondo abbiano potuto avere un altro inizio della totale violazione di ogni principio sacro e morale. L’opacità che avvolge l’origine di tutti i governi vecchi che ancora oggi sussistono, fa capire l’iniquità e il disonore da cui hanno avuto inizio. Perché è onorevole ricordarlo, l’origine degli attuali governi dell’America del Nord e della Francia si ricorderà sempre (si riferisce, ovviamente, agli Stati Uniti indipendenti e alla Francia rivoluzionaria); ma, riguardo tutti gli altri, persino gli adulatori sono stati costretti a spedire la loro memoria nella tomba del tempo senza degnarli nemmeno di un epitaffio dignitoso. […] Nella prima e solitaria età del mondo, allorquando la principale occupazione degli uomini era mantenere sotto controllo i greggi, non deve essere stato difficile che una banda di ruffiani dominasse un Paese, sottoponendolo poi a gravami tributari. Stabilito così il suo potere, il capo della banda s’ingegnava per cambiare il suo nome da ladro a monarca: ecco l’origine della monarchia e dei re. […] Quando il tempo cancellò la storia di questo inizio, i loro successori assunsero un nuovo aspetto per far dimenticare la loro ignominia originale, ma i loro principi ed obiettivi continuarono ad essere sempre gli stessi. Ciò che prima era una rapina, prese in seguito il nome di entrate statali, e loro finsero di avere ereditato il potere originalmente usurpato[3].
Scriverà, quasi due secoli dopo, Cornelius Castoriadis:
Se guardiamo non la lettera delle costituzioni ma il funzionamento reale delle società politiche, verificheremo immediatamente che si tratta di regimi di oligarchie liberali. A nessun filosofo politico del passato degno di quel nome sarebbe mai passato per la testa chiamare questi sistemi «democrazia». Avrebbe riscontrato immediatamente che vi comandava un’oligarchia costretta ad accettare alcuni limiti ai suoi poteri. […] Nel «Contratto sociale» Rousseau afferma: «Gi inglesi credono d’essere liberi, ma in verità sono liberi solo quando votano, un giorno ogni cinque anni». Oggi, gli elettori non sono liberi neppure un giorno ogni quattro – cinque anni, poiché i candidati sono designati dalla cupola dell’apparato di partito[4].
Aggiungo un commento di Bertrand Russell:
Thomas Paine, figura prominente di due rivoluzioni, corse il rischio di essere impiccato per avere tentato di scatenarne una terza. Con tutto ciò, oggi è poco conosciuto. Ai nostri bisavoli egli apparve come una specie di Satana in terra, un sovversivo eretico, ribelle a Dio e al re. Si attirò la tenace avversione di tre uomini non legati tra loro: Pitt, Robespierre e Washington. I primi due volevano la sua morte, e il terzo nulla fece per evitargliela. Pitt e Washington lo odiavano perché democratico; Robespierre per la sua opposizione all’esecuzione del re e al regno del terrore. Fu suo destino di essere sempre odiato dai governi e onorato dall’opposizione: Washington, mentre stava ancora combattendo gli inglesi, ebbe parole di grande lode per Paine; la Francia gli tributò grandi onori fino a quando non salirono al potere i giacobini; in Inghilterra, i più importanti statisti whigs lo incaricarono di redigere i loro proclami. Naturalmente anche Paine aveva i suoi difetti; ma fu per le sue virtù, che egli fu odiato e calunniato[5].
Torniamo a noi. In origine, il reddito di base nulla ha a che fare con la misericordia e tutto con la giustizia. È, dice Paine, il dividendo che ogni cittadino riceve per non esercitare lo sfruttamento delle risorse naturali o dei beni comuni. Per lui si trattava di una privazione legata alla proprietà della terra ma, senza violentare i suoi ragionamenti, oggi possiamo includere molti altri capitoli: lo spettro elettro-magnético, l’uso industriale dell’aria, l’acqua, il paesaggio, l’habitat urbano ecc.
In Italia e in altre provincie centrali dell’impero, si parla in questi giorni (maggio 2018) dello stop alla sperimentazione del reddito di cittadinanza in Finlandia. S’intende, beninteso, dimostrarne l’insostenibilità.
In verità, le cose stanno un po’ diversamente anche in Finlandia. Ce ne occuperemo seriamente in un’altra occasione, ma anticipo che il programma inaugurato nel 2017, 560 euro al mese esentasse durante due anni (fino al 31 dicembre 2018) consegnati a 2.000 disoccupati tra 25 e 58 anni, scelti a caso tra le 175.000 persone che percepivano qualche tipo di sussidio per disoccupazione, era un esperimento che non aveva l’ampiezza né disponeva del tempo necessari per dedurne l’informazione necessaria all’analisi della sua viabilità, come peraltro segnalarono fin dall’inizio numerose organizzazioni finlandesi.
Sembra fin troppo ovvio. Infatti, lo scopo non è informare ma recintare la discussione e passare sotto silenzio altre cose come, ad esempio, che lo Stato dell’Alaska dispensa proprio un “dividendo cittadino” a tutti i residenti (736.732 nel 2014), per gli investimenti statali che riguardano le risorse minerarie, anzitutto il petrolio. Recita la costituzione dell’Alaska fin dal 1976: “Almeno il 25 percento del noleggio delle licenze sui minerali, sulle proprietà, sui ricavi dalle vendite delle proprietà, sui pagamenti per la distribuzione dei profitti minerali federali e sui bonus ricevuti dallo Stato, devono essere versati in un fondo permanente. Questo fondo, “l’Alaska Permanent Fund”, deve essere impiegato esclusivamente per investimenti che puntano alla produzione di reddito. Una parte del Fondo va comunque distribuita annualmente a tutti in modo paritario”. Nel 2016 il fondo, che disponeva di oltre 50 miliardi di dollari, ha destinato ad ogni cittadino oltre 2.000 dollari[6].
Avendo oltre 200 anni, di questo concetto si è molto discusso, ma c’è comunque accordo sulla sua formulazione teorica: deve garantire a tutti i residenti, in modo automatico, individuale e incondizionato, un reddito periodico di sussistenza. La novità riguardo qualsiasi programma oggi vigente è proprio il suo carattere automatico, individuale e incondizionato.
Ergo, se è del tutto lecito discutere sulla sua sostenibilità economica, sulla sua compatibilità con lo Stato sociale, sull’ammontare da corrispondere mensilmente, sulla giustizia o meno dell’idea … non lo è eliminare questa caratteristica costitutiva e, se lo si fa, parliamo d’altro. Ad esempio, del “reddito di sussistenza”, ovvero di un sussidio concesso dallo Stato – con tutte le condizionanti immaginabili – a chi può provare il proprio stato di necessità temporale. Ergo, non un diritto, ma una concessione.
Come appena accennato, le caratteristiche indissociabili del reddito di cittadinanza sono tre. La prima, l’universalità, significa che comprende tutti i residenti nell’area geografica dove si applica.
La seconda, l’individualità, garantisce maggiormente – tra altre ragioni – la vita e la libertà delle donne che si dedicano ai lavori domestici.
La terza, l’incondizionalità, significa che, indipendentemente da ogni altra fonte di reddito o condizione sessuale, religiosa o etnica, percepire un reddito uguale alla soglia di povertà è un diritto. Anzitutto per una questione di principio: i redditi condizionati presuppongono che la situazione normale sia quella di avere un lavoro salariato e che, se lo si perde, ti si dia una mano. Il reddito di base pretende invece garantire a tutti l’esistenza materiale, perché questa è condizione della libertà. I liberisti credono che la libertà sia indipendente dell’esistenza materiale, ma non si può essere liberi in povertà (naturalmente, se questa non è scelta), ovvero se non si ha garantita l’esistenza materiale e si è costretti a dipendere da altri per poter sussistere. Ci sono ragioni di tipo tecnico, ad esempio evitare la trappola che rende incompatibile ricevere un sussidio e avere un lavoro remunerato; evitare lo stigma che contraddistingue chi percepisce un sussidio; eliminare l’esercito di controllori che oggi si occupano di verificare i requisiti del domandante e, più in generale, eliminare i costi amministrativi trattandosi di un’assegnazione automatica mensile.
Per la sua stessa natura, il reddito di cittadinanza dovrebbe comprendere, quindi cancellare, tutte le prestazioni esistenti non contributive (ad esempio, le pensioni assistenziali, l’erogazioni monetarie concesse ai redditi al di sotto di una certa soglia, i sussidi di disoccupazione non contributivi o straordinari …), proprio perché integrerebbe ogni sussidio personale fino ad arrivare a una cifra prestabilita. Chi percepisce 1.000 euro di pensione al mese, dovrà percepire la differenza per mantenerne il livello, mentre resterebbero immutate tutte le altre prestazioni legate allo Stato sociale, ad esempio l’educazione e la sanità.
Altrettanto logicamente, il reddito di cittadinanza non sarebbe sottoposto a nessun tributo diretto ma, eliminandosi gli attuali minimi raggiunti i quali si paga l’imposta sul reddito, permetterebbe di tassare qualsiasi altro reddito.
Ovvero, l’introduzione del reddito di cittadinanza eliminerebbe buona parte dei poteri discrezionali delle pubbliche amministrazioni (in Stati come il Belgio, ma anche nell’Argentina, dove il sistema assicurativo-pensionistico è gestito da un connubio innaturale tra sindacati e governo, toglierebbe molta clientela a questi ultimi costringendoli a ridiventare sindacati). Ciò ridarebbe dignità a tutti i cittadini dello Stato. Semplificherebbe enormemente le politiche tributarie. Potrebbe essere un ottimo volano per mettere in piedi un’effettiva politica meridionalista togliendola dalle pive mummificate di Casse e banche specializzate nel nulla. Sarebbe un ottimo strumento per combattere l’evasione fiscale… Insomma, non ci vuole tanto per capire perché non se voglia neppure parlare.
Concettualmente, oggi il reddito di cittadinanza è un’idea radicale, non un’idea rivoluzionaria. Solo con un discorso ignorante si può sostenere che sia un concetto ideologico. È solo una proposta economica la cui definizione politica (cosa, quanto, come, a chi, quando), dipenderà dalle condizioni e modalità di applicazione, ovvero dalla relativa forza politica. Non dovrebbe servire da pretesto per stupide esercitazioni sul senso dello Stato – forte/inesistente – dei contendenti, un senso che, peraltro, solitamente il comunicatore di turno non tenta neppure di provare (basta la propria autoaffermazione, “ho detto”). Non dovrebbe neppure essere lasciato nelle mani di qualche apprendista stregone.
Resta una domanda: è fattibile?
Eccezione fatta per i non credenti, bisognerebbe lavorare seriamente per calcolarne costi e finanziamenti possibili.
In Paesi non troppo diversi, comunque, si sono portati un bel po’ avanti con questo lavoro.
In Spagna, ad esempio, è stata recentemente calcolata la viabilità di un reddito di cittadinanza equivalente alla soglia di povertà stimata per il Paese (622,5 euro mensili). Lavorando su un campione di 2 milioni di dichiarazioni dei redditi, questa proposta farebbe risparmiare 92,2 miliardi allo Stato[7].
Da considerare che i dati sono riferiti all’IRPEF effettivamente dichiarato, ossia ai dati ufficiali. Senza prendere in considerazione una riforma delle tasse o un recupero dell’evasione fiscale. In Spagna si trova nei paradisi fiscali una cifra stimata nel 12% del PIL, 140 miliardi di euro, che appartiene allo 0,01% più ricco della popolazione. Finanziare questo provvedimento recuperando questa ricchezza sarebbe un gioco da bambini.
Lo studio dimostra che il finanziamento della misura è fattibile con il risparmio derivato dalle prestazioni pubbliche monetarie (borse di studio, sussidi di disoccupazione o pensioni), e che la si può finanziare anche con una riforma progressiva dell’IRPEF (l’esatto contrario della flax tax). Ma la proposta preferita dagli autori del rapporto è una grande redistribuzione dei redditi dal 20% più ricco al restante 80%. I loro numeri mostrano che il 20% continuerebbe ad essere ricco, ma dovrebbe pagare molte più tasse. Va da sé: anche loro percepirebbero il reddito di base.
Insomma, ci sono indubbie difficoltà tecniche, ma la questione è tutta politica.
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[1] In Agrarian Justice, opposed to Agrarian Law, and to Agrarian Monopoly.
[2] “Mentre uscivo una mattina / per respirare l’aria dalle parti di Tom Paine / vidi la più bella fanciulla / che mai camminò in catene …”
[3] The rights of man, capitolo 2: Of the of the present old governments. Opere di Thomas Paine disponibili in italiano: “L’età della ragione”, Ibis, Pavia 2000; “Senso comune”, Liberilibri, Macerata 2008; “I diritti dell’uomo – e altri ascritti politici”, Editori Riuniti Roma, 2016. Opere sulla vita e il pensiero di Thomas Paine, in italiano: John Dos Passos, “Tom Paine”, Mondadori, Milano-Verona 1950; Vittorio Gabrieli, “Thomas Paine, cittadino del mondo”, Opere nuove, Roma 1960; Simonetta Scandellari, “Il pensiero politico di Thomas Paine”, Giappichelli, Torino 1989; Marco Sioli, Matteo Battistini (a cura di) “L’età di Thomas Paine. Dal senso comune alle libertà civili americane”, Franco Angeli, Milano 2011; Maurizio Griffo, “Thomas Paine. La vita e il pensiero politico”, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2011; Thomas Casadei, “Tra ponti e rivoluzioni. Diritti, costituzioni, cittadinanza in Thomas Paine”, Giappichelli Editore Torino 2012.
[4] Cornelius Castoriadis, “Une société à la dérive”, Seuil, Parigi 2005
[5] Bertrand Russell, “Il destino di Thomas Paine”. Questo saggio, scritto nel 1934, è inserito nella raccolta di alcuni suoi interventi e articoli pubblicati col titolo Bertrand Russell: perché non sono cristiano, TEA, Milano 2006.
[6] Il testo citato è parte della Costituzione dell’Alaska. La traduzione è mia. Per i dati aggiornati si possono consultare Bryan Merchant, “L’unico stato al mondo in cui esiste il «reddito di cittadinanza»”, in Vice channel, 7 0ttobre 2015, e il commento non firmato sullo studio condotto per il National Bureau of Economic Research, dagli economisti Damon Jones dell’Università di Chicago e Ioana Marinescu, dell’Università della Pennsylvania, intitolato “In Alaska il reddito di cittadinanza fa bene all’economia”, in “Il Sole-24 ore”, Milano 20 febbraio 2018.
[7] Jordi Arcaraons, Daniel Raventós, Lluís Torrens, “Renta básica incondicional. Una propuesta de financiación racional y justa”, Ediciones del Serbal, Barcellona 2018