Ecuador, USA e Assange: storie e peripezie non esemplari

Ecuador, USA e Assange: storie e peripezie non esemplari



Lenín Moreno, presidente de Ecuador, e Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale di Trump. (Foto: EFE/Reuters)

 “Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato,
nel suo letto, in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza,
e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso,
solcato da nervature arcuate,
sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra.
Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole,
gli si agitava dinanzi agli occhi.

Franz Kafka[1]

1.- Il mattino del 2 aprile 2017, la Commissione elettorale ecuadoriana annunciava che Lenin Moreno aveva vinto il ballottaggio presidenziale.

La stessa sera, 2 aprile 2017, il presidente eletto da una coalizione di sinistra, si riuniva con Paul Manafort, responsabile della campagna elettorale del presidente statunitense Donald Trump tra giugno e agosto 2016, quando era stato costretto a dimettersi perché implicato in scandali di corruzione[2].

Il 27 ottobre 2017 Manafort è stato incriminato per reati commessi in Ucraina prima del rovesciamento del governo filo-russo di Viktor Yanukovych (2014). Nel giugno 2018 fu accusato di ostruzione alla giustizia e manomissioni dei testimoni mentre era agli arresti domiciliari. Successivamente, Manafort è stato processato in due tribunali federali. Nell’agosto 2018 è stato condannato nel distretto orientale della Virginia per frode fiscale e bancaria. Nel tribunale distrettuale di Washington si è dichiarato colpevole e ha accettato di collaborare con i pubblici ministeri. Il 26 novembre 2018 è stato accusato di avere violato il patteggiamento mentendo ripetutamente agli investigatori. Il 13 febbraio 2019, il giudice del tribunale distrettuale ha annullato l’accordo stipulato. Il 7 marzo 2019 è stato condannato a 47 mesi di prigione[3].

Probabilmente, la consegna di Assange agli USA è stata decisa già in quell’incontro. Il baratto prevedeva la consegna della testa di Assange in cambio di compensi pecuniari ed accordi commerciali.


Vista del centro storico di Quito. Sullo sfondo è visibile la Vergine di Quito, posta sul Panecillo – Foto Cayambe

2.- Al baratto concordato dal connubio MM (Moreno-Manafort), mancava il catalizzatore.

In chimica, un catalizzatore è una materia che interviene durante lo svolgimento di una reazione chimica modificando il complesso attivato della reazione. Ossia, abbassando l’energia di attivazione, ne aumenta la velocità.

Si stima che almeno il 60% di tutte le sostanze commercializzate oggi richiedano l’uso di catalizzatori in qualche stadio della loro sintesi. Perché dovrebbe farne eccezione una transazione come quella appena descritta?

Il 26 marzo 2019, nel contesto del degrado della situazione di Assange che ho descritto in un testo precedente, Wikileaks annunciava: “Il Parlamento ecuadoriano ha aperto un’inchiesta per corruzione contro il presidente, Lenin Moreno, in seguito alla pubblicazione di contenuti filtrati dal suo iPhone (Whatsapp, Telegram) e dal suo Gmail. Il “New York Times” ha informato che Moreno ha proposto di vendere Assange agli Stati Uniti in cambio di un condono di parte del suo debito”[4].

Era l’atto di apertura del caso “INA Papers”. I villani invitati erano il presidente dell’Ecuador, suo fratello Edwin e le figlie del presidente. La trama, un’operazione di riciclaggio di denaro per 18 milioni di dollari realizzata nel Belize.

Il nome INA deriva dalle lettere finali dei nomi delle tre figlie di Lenin Moreno: Ir(ina), Crist(ina) e Kar(ina). I 18 milioni di dollari percepiti da Edwin Moreno, capo dell’INA Investments Corp, sono stati riciclati da 11 aziende fantasma: Espíritu Santo Holdings, Fundación Amore, Fundación Esmalau, Fundación Pacha Mama, Inversiones Larena, Inversiones Maspal, Manela Investment Corp, Probata Investments, San Antonio Business Corp, Turquoise Holdings Ltd, Valley View Business Corp.

Malgrado Assange fosse scollegato dal mondo, Moreno l’ha incolpato di essere il responsabile della violazione della sua posta e del suo telefono.

“A Quito, la ministra Maria Paula Romo ha dichiarato in conferenza stampa: «C’è un piano di destabilizzazione in Ecuador che è legato agli interessi geopolitici» … E a New York, Hillary Clinton: «È chiaro dall’accusa che è venuta fuori che l’arresto riguarda l’assistenza all’hackeraggio di un computer militare per rubare informazioni dal governo degli Stati Uniti. Aspetterò e vedrò cosa succederà, ma deve rispondere per quello che ha fatto»”[5].

Hanno la faccia come il culo. Non conoscendo la vergogna, possono fare qualsiasi cosa senza scrupoli né pudore. Non è un apprezzamento estetico, ma un giudizio etico.

Di Lenin Moreno, oltre alla personalità empia, va messo in luce la sua radicale giravolta verso destra, messa in luce dalla conclusione di un accordo col FMI e la Banca Mondiale per 10 miliardi di dollari, in cambio di un severissimo programma di austerità che includeva tra l’altro il licenziamento immediato di 10mila funzionari dell’amministrazione pubblica.

Va pure detto che gli “INA Papers” della corrotta famiglia Moreno non sono una novità ma soltanto un altro capitolo dell’applicazione mafiosa del neoliberismo globale in America Latina. In questo caso, il capitolo d’imputazione è quello del riciclaggio nei paradisi fiscali di quantitativi di denaro atti ad acquistare le coscienze dei suoi governanti e/o dei manipolatori dell’opinione pubblica.

Per menzionare solo alcuni casi recenti, ricordo i “Panama Papers”, che coinvolsero Mario Vargas Llosa e il presidente argentino Mauricio Macri; i “Bahama Leaks”, che videro alla ribalta Pinochet, Macri e il PAN messicano; la truffa della Banca Stanford, che riciclava i soldi del Cartello del Golfo con l’aiuto dell’ex ministro degli esteri messicano (2000-2003) Jorge Castañeda Gutman. Si può aggiungere un lungo eccetera.

Il corollario è semplice: in America Latina non c’è neoliberismo senza riciclaggio.

3.- L’imperizia è tutt’altra cosa, anche se …

Il caso Assange mi ha riportato in mente il caso Abdullah Ocalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Un veloce riassunto:

Ocalan arrivò il 12 novembre 1998 in Italia accompagnato da Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista e responsabile Esteri del partito. Si consegnò alla polizia sperando di ottenere in qualche giorno l’asilo politico che gli era stato garantito da membri del governo presieduto da Massimo D’Alema. Tuttavia, il governo non glielo concesse per le pressioni ricevute dall’estero, in particolare dalla Turchia e dagli Stati Uniti, e dalle aziende italiane che temevano di essere boicottate dal governo turco.

Il 16 dicembre 1998 la quarta sezione penale della Corte d’Appello di Roma sentenziò che Abdullah Ocalan doveva essere considerato un libero cittadino, revocando l’obbligo di dimora e il divieto di espatrio che gli era stato imposto preventivamente il 20 novembre 1998. La Corte stabilì anche il non luogo a procedere nei confronti dell’estradizione, in riferimento al mandato di cattura emesso dalla Germania.

Il 23 dicembre 1998 Massimo D’Alema, durante la conferenza stampa di fine anno, diceva: “L’esito più probabile di questa vicenda è che Ocalan se ne vada dal nostro Paese”. Ma, aggiungeva, Ocalan deve essere d’accordo perché in caso di una vera e propria espulsione “sarebbe molto difficile per un pretore non imporre al governo il soggiorno obbligato per ragioni umanitarie”.

Comunque, a quel punto era evidente che il governo aveva deciso di far partire Abdullah Ocalan, ufficialmente con la formula di un “allontanamento volontario”.

Infatti, il giorno prima di partire Ocalan scrisse una lettera in cui sosteneva di aver deciso spontaneamente di lasciare l’Italia. Invece, è molto probabile che sia stato costretto a farlo[6]. Si sa che gli vennero proposte diverse destinazioni, principalmente in Africa (Guinea, Guinea Bissau, Mali, Sudafrica), ma che Ocalan le rifiutò tutte, ritenendole poco sicure. Alla fine, però, il 16 gennaio 1999 fu convinto a partire per Nairobi, in Kenya.

Pochi giorni dopo, il 15 febbraio 1999, Ocalan fu catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi durante un trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi, e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in Turchia, nell’isola di İmralı, dov’è rimasto fino ad oggi.

Il carcere di Imrali

Nell’aprile 1999, il Tribunale per la sicurezza dello Stato di Ankara accusò Abdullah Ocalan di tradimento e di attentato all’unità e alla sovranità dello Stato turco. Quindi, è stato condannato alla pena di morte perché ritenuto responsabile di tutti gli atti terroristici del PKK e della morte di migliaia di persone.

La condanna non è stata eseguita poiché l’allora presidente della Turchia, Bulent Ecevit, si oppose per non compromettere le trattative della Turchia per entrare nell’Unione Europea.

Nel 2002 la Turchia abolì la pena di morte e la pena di Ocalan si trasformò in ergastolo.

N.B.: negli Stati Uniti la pena di morte non è stata abolita.

“Signore e signori, i tempi son tristi:
è saggio chi è in ansia, cretini i vanesi.
Non vince le angustie chi ha perso del riso il gusto:
per questo la farsa scrivemmo
che voi ascolterete.
Ma, attenti! signori,
gli scherzi che udremo non stiamo a pesarli
a grammi, a millesimi; ma a cesti, a quintali!
Pesateli come patate, ed ancora cercate aiutarvi un po’ con l’accetta”[7].

R. A. Rivas

14 aprile 2019


[1] Franz Kafka, “Die Verwandlung”, Kurt Wolff, Lipsia 1915. Tr. it. “La metamorfosi”, Adelphi, Milano 1981.

[2] Karina Martin, “Ecuador Admits President Moreno Met with Paul Manafort in April”, 21 novembre 2017 https://panampost.com/karina-martin/2017/11/21/ecuador-admits-president-moreno-met-with-paul-manafort-in-april/?cn-reloaded=1

[3] Clark Mindock, Andrew Buncombe “Manafort sentencing: Trump’s ex-campaign manager sentenced to less than four years in jail for fraud”, Londra 8 marzo 2019 https://www.independent.co.uk/news/world/americas/us-politics/paul-manafort-sentencing-trump-wheelchair-court-jail-a8813281.html

[4] Defend Wikileaks, “Ecuador twists embarrassing INA Papers into pretext to oust Assange”, https://defend.wikileaks.org/2019/04/03/ecuador-twists-embarrassing-ina-papers-into-pretext-to-oust-assange/

[5] Enzo Boldi, “In Ecuador è stato arrestato un uomo legato a Julian Assange”, “Il Giornale”, Milano 12 aprile 2019 https://www.giornalettismo.com/archives/2700714/julian-assange-arresto-ecuador

[6] Sergio Romano, “Il caso Ocalan e il dilemma del governo D’Alema”, Corriere della Sera, Milano 23 giugno 2017. https://www.corriere.it/solferino/romano/07-06-23/01.spm

[7]  Bertolt Brecht, “Herr Puntila und sein Knecht Matti”, Schauspielhaus Zürich, Zurigo 1950. Tr. it. “Il signor Puntila e il suo servo Matti”, Einaudi, Torino 1970.

Rodrigo Andrea Rivas

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