Giravolte e ragazzi di vita II: Metafore

Giravolte e ragazzi di vita II: Metafore

“Intanto il padre notò che veramente il ragazzo studiava con amore
e allo studio dava tutto il suo tempo,
ma che non ne traeva profitto anzi, ciò ch’è peggio,
ne diveniva matto, cretino, fantastico, farneticante.
E rammaricandosi un giorno con Don Filippo De Marais, viceré di Papaligozza,
questi gli disse che sarebbe stato meglio non imparasse nulla
piuttosto che ficcarsi in testa quei libri, con quei precettori:
 la scienza loro non era che bestialità,
la loro sapienza scempiaggine,
a non altro adatta che a imbastardire i buoni e nobili spiriti
e a corrompere ogni fior di giovinezza”.
François Rabelais, “Gargantua e Pantagruele”, Libro I, Capitolo XV

“Il poeta appoggiò una mano sulla spalla del ragazzo.
Per dirlo in modo più o meno impreciso, sono modi di dire una cosa confrontandola ad un’altra.
Mi faccia un esempio.
Neruda guardò il suo orologio e sospirò.
Bene, quando tu dici che il cielo piange. Cosa vuoi dire?
Facile! Che piove.
Bene, quella è una metafora”
(Antonio Skármeta, “Il postino di Neruda, 1986).

La metafora sostituisce un termine proprio con uno figurato trasponendone simbolicamente l’immagine: le spighe ondeggiano come il mare; il mare si lamenta come un essere vivente; le nuvole disegnano il carro di Zeus; il re della foresta si muove come un uomo …

Sentendosi in guerra, “contravvenendo tutte le indicazioni dell’OMS il governo del Nicaragua ha sfidato questo sabato la pandemia del coronavirus con una manifestazione denominata «L’amore ai tempi del Covid-19»” (EFE, “El Gobierno de Nicaragua desafía al coronavirus con una marcha multitudinaria, 15 marzo 2020).

Con la stessa ridicola e metaforica umanizzazione militarista del virus, precedentemente molti statunitensi erano corsi ad acquistare armi per affrontarlo, il Trumpo l’ha usata per aumentare le spese militari, il governo cileno per sospendere ogni tentativo di cambiamento, quello italiano per autorizzare la ripresa dei lavori di costruzione degli F35.

Gli F-35 sembrano motivo di sovrano orgoglio: “La partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter inizia nel 2002. Nel 2009 il Parlamento italiano approva l’acquisizione dei velivoli e la realizzazione di una linea nazionale di assemblaggio e verifica finale. Da allora, il coinvolgimento crescente dell’Italia ha portato a raggiungere importanti milestones (pietre miliari) quali, ad esempio: il primo volo del primo velivolo assemblato in Italia (Settembre 2015), la prima trasvolata atlantica nella storia dell’F-35 (Febbraio 2016), il primo paese Partner ad attivare una base operativa JSF al di fuori dei confini statunitensi presso il 32° Stormo di Amendola nel dicembre 2016” (Sito ufficiale del Ministero della difesa).”

Conseguentemente, il 31 marzo 2020 la Leonardo-Finmeccanica di Cameri ha riaperto alla costruzione degli F-35.

Se ne deduce che se per i militari sono un orgoglio, per il governo siano un lavoro essenziale.

A questa decisione hanno concorso il triplice salto mortale dell’M5S, che plaude quanto definiva precedentemente “costoso, inutile e pericoloso”, e l’inossidabile coerenza delle varie fazioni dirigenti del PD, perennemente d’accordo su ciò che per loro è “la modernità all’amatriciana”.

La soddisfazione del governo e delle opposizioni parlamentari, della lobby delle armi, della Lockheed Martin, della Nato e, temo, di alcuni sindacalisti, è scontata.

Forse non è di buon gusto ricordarlo ma, negli Anni ’70, per vendere il suo aereo di trasporto Hercules C-130 la Lockheed pagò generose tangenti a politici statunitensi, olandesi, tedesco occidentali, giapponesi e italiani. Da noi, l’incaricato delle trattative e delle tangenti, tale “Antelope Cobbler”, è rimasto ovviamente ignoto ma “Antilope Ciabattino” è il nomignolo di un altolocato ladro a scala industriale.

La Lockheed è un’azienda seria, con accentuata eticità, compassionevole e persino dedita alla beneficenza, presumo. Un’azienda alla Bill Gates e alla Steve Jobs, noti capitani del lavoro nero e della precarietà. 

A fine marzo 2020 l’economia mondiale segue le cadenze disarmoniche del COVID 19.

Alcune cose sembrano assodate e trangugiate dall’opinione pubblica: recessione generalizzata, brusca frenata dell’apparato produttivo, calo generalizzato dei redditi derivati da lavoro, crollo delle Borse, diffusione del panico nel mondo finanziario (vedere “Chiudere le borse, mettere sotto controllo i flussi di capitale” nel mio blog).

Compaiono alcune preoccupazioni: forte aumento della disoccupazione e della precarietà, insicurezza sul rifornimento futuro delle merci per la rottura delle catene di approvvigionamento, impoverimento massiccio dei paesi produttori di materie prime ed eventuale crescita dell’emigrazione, instabilità politica accentuata.

La saldatura tra conseguenze che sembrano assodate e trangugiate, e preoccupazioni sostanzialmente sopite, tratteggerà lo scenario dei prossimi anni.

La sinistra dovrebbe predisporre ora le risposte. Limitarsi al ruolo dei più convinti assertori del confinamento e del “tutto andrà bene”, è proprio di una fuga. Oggi, rispettare il confinamento è un atteggiamento doveroso, ma limitarsi a questo non ha corrispondenza alcuna con quanto troveremo davanti nel futuro prossimo.

Alla fine di questa piccola serie di articoli cercherò di dare un contributo al disegno di una politica che non si fermi al noioso dibattito sul nome dell’eventuale salvatore futuro dell’Italia. 

Com’era accaduto nel 2008, fino all’inizio del 2020 per gli esperti ed i media tutto andava passabilmente bene e, negli USA, addirittura benissimo.

Quest’idillico quadretto alla Heidi è stato alterato brutalmente dal coronavirus che, diventato pandemia, potrebbe provocare un collasso simile a quello del 2008.

Temo che esperti e media siano troppo ottimisti, come i bambini riguardo la felicità di Heidi. Da non bambino e senza il bravissimo nonno della orfana, penso che collasso e sofferenze saranno ben peggiori.

Nicaragua, marcia contro il Covid-19, 15 marzo 2020

Nel 2008 erano assolutamente indiscutibili la colpevolezza dei banchieri e la cupidigia degli speculatori, che, “curiosamente”, sono stati ampiamente premiati successivamente.

Nel 2020, poiché tutto è colpa del virus, non ci sono responsabili, “siamo tutti sulla stessa barca” e il senso di responsabilità costringe a non disturbare il manovratore.

Dai balconi, dai media e dai social, s’innalza un coro unanime: “Siamo in guerra”.

Mi spiace non essere d’accordo. Penso che il coronavirus sia una catastrofe, ma non una guerra.

La dico con Gino Strada: ”La guerra è un’altra cosa. Nella guerra non ci sono solo i morti per i bombardamenti, c’è la fame, c’è la mancanza d’acqua, c’è la mancanza di un tetto, c’è l’incertezza totale rispetto all’ora successiva. Fortunatamente la maggior parte di noi quest’incertezza non ce l’hanno il rischio ce l’abbiamo tutti ma insomma per molti direi che è un rischio estremamente basso” (“Che tempo che fa”, Rai2, 29 marzo 2020).

Sciorinando metafore

“E nel nome del progresso, il dibattito sia aperto.
parleranno tutti quanti, dotti medici e sapienti.
Tutti intorno al capezzale, di un malato molto grave.
 Anzi già qualcuno ha detto, che il malato è quasi morto”.
Edoardo Bennato, “Dotti, medici e sapienti”, 1996

Da cinquant’anni a questa parte, i discorsi egemonici sull’andamento dell’economia e della crisi rimpiazzano le cose con metafore, vere e proprie fiabe senza le quali al neoliberismo non tornerebbero i conti.

Queste metafore fiabesche sono servite e servono per imporre descrizioni della realtà, per bloccare ogni altro sguardo possibile e per suscitare sentimenti di paura e impotenza.

I discorsi sull’economia e sulla crisi sono parte integrante dell’economia e della crisi.

Le cose sono fatte dai nomi che diamo loro. Ad esempio, cosa sia – o smetta di essere – ciò che chiamiamo crisi, dipende dal modo in cui se ne parla, per cui il divario tra ciò che la popolazione è disponibile a credere e ciò le autorità vogliono che creda può essere colmato solo dai discorsi.

Discorsi che costruiscono un apparato ideologico con le caratteristiche di una questione di fede. Che non descrive, ma prescrive come si debba pensare siano le cose dell’economia e del denaro.

La perdita o il recupero di questa fede dipende in buona misura dai discorsi e modi di parlare.

Ergo, ai tempi del neoliberismo la politica è questione di fede, non l’arte di governare o di trovare soluzioni avanzate allo stato delle cose.

Quindi, è normale che demagoghi, fattucchiere, profeti, baciapile, sgranatori di rosari e archeologi dei sepolcri scambino per proposta la loro richiesta di fede.

Per verifica, basta guardare i TG dove i più svergognati si propongono addirittura come gli interpreti della fede, quindi della politica, in piena impunità dialettica.

Le cose mai sono come sono. Sono sempre come sono per qualcuno, come questo qualcuno le vede dal suo specifico punto di vista.

Per chi ci crede, soltanto l’occhio di Dio può vedere le cose da nessun luogo (o da tutti i luoghi, che è lo stesso).

Le metafore indicano a mori e cristiani la prospettiva dalla quale vede le cose chi ne parla e, anche, da quale prospettiva chi ne parla vuole che le vediamo noi.

Il pensiero egemonico si accosta all’economia e alla crisi proponendo tre tipi di metafore: naturalizzanti, mediche e personalizzanti.

Le “metafore naturalizzanti”

“È così che abbiamo visto per tutta la seconda presidenza di quell’ineffabile umorista che,
durante un raptus d’ispirazione, stillò questa goccia d’elisir filosofico:
«In Perù» sentenziò il Presidente Prado, «ci sono due specie di problemi:
 quelli che non si risolvono mai e quelli che si risolvono da soli».
 L’ignoranza dei contadini impedì che un così interessante assioma filosofico
venisse propagato.
 I problemi dei contadini si risolsero a colpi di fucile.”
Manuel Scorza, “Rulli di tamburo per Rancas”, 1970

Presentano i fenomeni economici come forze scatenate della natura: “Lo tsunami provocato dal crollo delle monete”, “La carestia del credito”, “L’uragano finanziario”, per provocare due effetti.

Il primo è annullare ogni responsabilità: poiché nessuno può essere responsabile di uno tsunami o delle carestie, nessuno può esserlo delle crisi. La conclusione è ovvia: “Siamo tutti responsabili”, “Siamo tutti sulla stessa barca”.

Su questa strada, alla fine la crisi è inevitabilmente responsabilità dei poveri, dei disoccupati, degli anziani, “dei bamboccioni” della Fornero, di quelli che non si lavano le mani nei tempi di corona virus. Eppure, ci avevano avvertiti: “Se non sarete attenti, i media vi faranno odiare le persone oppresse e amare quelle che opprimono” (Alex Haley, “Autobiografia di Malcolm X”, 1965).

Il secondo è iniettare abbondanti dosi di paura e rassegnazione.

Trovandoci davanti ad una costruzione inevitabile e universale, dobbiamo concludere che così come nessuno può sfuggire agli effetti della legge di gravità, nessuno può scappare alle leggi dell’economia.

Questo sillogismo, elementare ma efficace, ha tre passaggi:

a) i fenomeni economici sono naturali;

b) come “la natura”, anche “l’economia” è una sola;

c) ogni pretesa alternativa, dalla proposta di altri modelli economici al tentativo di scollegare dall’economia diversi aspetti della vita (“dis-economizzare”), è una stupidaggine, una chimera, un’utopia, un’ingenuità o, più frequentemente, una manifestazione di pericoloso estremismo.

Il sillogismo natura uguale economia permette di sostenere solennemente solenni cazzate, ma il primo antidoto è banalissimo: non ascoltare o leggere i discorsi intrinsecamente ideologici degli “esperti” con la serietà che ci è stata inculcata, ma come se si trattasse della cronaca di una partita di calcio, dell’ultimo pettegolezzo sul jet-set, di una lettura dei tarocchi o di qualche sondaggio elettorale. Questo semplice accorgimento rende lampante lo sproposito di cotanta “expertise”.

Si pensi, ad esempio, all’avventura di George W Bush in Iraq (la W sta per il piccolo).

La premessa, da accettare a priori, è: “La carica delle walkirie è sempre giustificata e legittima”.

Accettata a priori poiché non farlo equivarrebbe a dichiararsi amico dello Stato islamico, dei dittatori e dei tagliagole.

Da questo dato acquisito, “l’analisi” degli esperti era (è) un discorrere lungo e poco ameno sul “teatro” (lo scenario fisico, la planimetria del deserto, le cartine stradali), sull’abbigliamento delle soldatesse, sulla velocità dei carri armati o sulla gittata dei loro missili.

La prevedibile evoluzione del conflitto, rappresentata dalle bandierine inchiodate sulle mappe appese alle pareti dello studio, dimostra “il progredire” ineluttabile della giusta operazione.

Il piccolo ne derivava la morale: “Dio è dalla nostra parte”.

Il pubblico, credente o meno, ha visto tanto e capito poco o nulla. Come accadde ai protagonisti del romanzo di José Saramago, “Cecità” (1995), forse perché hanno visto troppa luce, hanno visto nulla.

Racconta Saramago che tutti i ciechi, e cioè tutta la popolazione, erano avvolti da una sorta di nube lattiginosa che non gli permetteva di vedere.

Con la cecità esplodevano il terrore, il panico e la violenza. I primi colpiti dal male erano rinchiusi in un ex manicomio per paura del contagio e dell’insensibilità degli altri. Compariva un’umanità bestiale e feroce, incapace di vedere e di discernere, abbruttita, violenta, degradata, adoratrice della bestialità e fustigatrice della razionalità.

Nella città immaginaria non si era ciechi perché non si vedeva ma perché, vedendo troppo, la popolazione non riusciva ad articolare i dati per farli diventare informazione, non riusciva ad organizzare l’informazione per trasformarla in conoscenza e, infine, perché non contenendo saggezza, la loro conoscenza non intendeva evitare di fare agli altri ciò che non si voleva venisse fatto loro. Era una conoscenza scarsa, in-umana e in-utile, difficile da risolvere poiché “i ciechi non vanno mai dall’oculista, a loro non serve” ed “è una vecchia abitudine dell’umanità passare accanto ai morti e non vederli”.

Quasi vent’anni dopo l’avventura del piccolo W, poiché l’Iraq è totalmente fuori controllo e la guerra si è generalizzata in tutta la regione, si deve dedurre che il racconto degli esperti era una baggianata insensata resa importante dal supporto televisivo mancante da ogni contraddittorio.

Non è importante, perché, come ci ha insegnato Elias Canetti, quello è intelligente come un giornale. Sa tutto. Ciò che sa cambia ogni giorno”. (“La tortura delle mosche”, 1992).

Le “metafore mediche”

“Ignaro indica due cose, ossia tanto colui che ignora, quanto colui che è ignorato (…)
La medicina abbraccia non solo le cose che la perizia di coloro che in senso specifico
vengono chiamati «medici» espone,
ma anche cibo e bevande, riparo e vestiti;
in breve ogni strumento di difesa e fortificazione con cui il nostro corpo
viene protetto dagli assalti e insidie del mondo esterno
”.
Isidoro di Siviglia, vescovo dal 600 al 636, “Etymologiarum libri, sive Originum” (“Etimologie e origini”)

Dopo avere trasformato i movimenti del denaro in cose naturali, le “metafore mediche” trasformano l’economia e la crisi in organismi viventi, e cioè in esseri umani bisognosi di sollecite cure mediche e persino di tenerezza.

“Gli attivi tossici hanno scatenato un’epidemia finanziaria che ha avuto un effetto contagioso sull’economia reale”, “La patologia della crisi richiede una corretta diagnosi per iniettare grandi dosi di liquidità nel corpo economico, alimentare i flussi di capitale, rigenerare i fondi monetari e potenziare le riserve dei depositi”, “Bisogna evitare lo strangolamento del credito, sistema sanguigno del corpo economico, e il proliferare delle metastasi”.

Che tra le metafore mediche e le precedenti metafore climatiche e geologiche non ci sia compatibilità, è del tutto insignificante, come lo è che siano tra loro incongruenti (intossicazione o contagio? metastasi o strangolamento?).

Ciò che interessa è che la sovrapposizione degli effetti retorici permetta l’elaborazione di sentimenti: “La paura dell’uragano scatenato”, “La compassione per il malato”.

I venditori di metafore ben sanno che soltanto Crudelia Demon o Hannibal Lecter potrebbero rifiutare a cuor leggero che il loro denaro/sangue possa essere impiegato per le “urgenti trasfusioni” necessarie a “fermare l’emorragia del paziente” (finanziario).

Inoltre, come quelle naturalizzanti, le metafore mediche servono a bloccare altri angoli d’osservazione e/o altre prospettive possibili.

Se “il malato” è l’economia (in genere o in alcuni suoi componenti, dai flussi di capitale al sistema creditizio, dalla disuguaglianza allo spread), non può essere la malattia.

Disponendo di una diagnosi che parla di stagnazione, di paralisi e persino d’involuzione della “naturale crescita economica”, si è naturalmente portati ad immaginare il “paziente economia” sdraiato ed esanime su una barella.

Ne deriva un assioma: se a soffrire è la crescita economica, questa non può avere alcuna responsabilità sulle nostre piccole sofferenze individuali.

Corollario: I “comunisti”, gli “ambientalisti integralisti” ed altre bestie simili che considerano come un cancro la crescita incessante del profitto, del PIL, della produzione, non fanno altro che riproporre per l’ennesima volta una rappresentazione malvagia tipica da disadattati che, odiando il genere umano, non percepiscono né possono concepire che sia lei stessa, la crescita economica, a soffrire.

Le “metafore personificanti”

“Voi siete i preti del capitalismo.
Bisogna che persuadiate tutti i Paesi che, se fanno quello che diciamo loro, tutto andrà bene.
Dovete credere che la nostra organizzazione abbia una flessibilità incredibile
che le permette di adattarsi a sfide nuove grazie ai suoi statuti fondatori (…)
Abbiate sempre con voi questi statuti del FMI. Rileggeteli spesso.
La rivelazione di Dio è contenuta in queste sei ragioni del Fondo così come sono scritte qui.
La nostra responsabilità è fare un mondo migliore”.
Michel Camdessus, direttore del FMI, “Discorso ai neoassunti”, 1982

Dotano la costruzione economica, ormai naturalizzata e umanizzata, con altri attributi umani:

“I mercati puniscono l’euro”, “Sono studi e rapporti pieni d’angoscia”, “Le Borse rispondono con convinzione e allegria” (o “con scoraggiamento e disaffezione”), “Bisogna farsi carico delle necessità dei mercati”, “L’indice della borsa è (o resta) in attesa di conoscere gli umori dell’Europa (o della FED, o del corona virus o dell’ennesimo “vertice trascendentale”)”, “Le aziende hanno fame di liquidità”, “I mercati sono allergici a lacci e lacciuoli”…

Quindi, quanto era stato prima cosificato, naturalizzato e medicalizzato, acquista pienamente il rango di persona.

Trattasi di una persona autonoma, in grado di sentire e agire come qualsiasi altra, con le sue allegrie e le sue depressioni, i suoi bisogni e le sue frivolezze e – soprattutto – razionale al punto di poter dimostrare delle verità.

Trattasi di un’economia compiutamente trasformata in feticcio.

Rappresenta il nostro potere alienato, il nostro Frankestein o Moderno Prometeo che, resosi ormai indipendente, ci s’impone dall’esterno con la forza di una volontà inappellabile e implacabile.

R.A. Rivas Aprile 2020

Rodrigo Andrea Rivas

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