Chiudere le borse, mettere sotto controllo i movimenti di capitale

Chiudere le borse, mettere sotto controllo i movimenti di capitale

“Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa.
Si avvicina un poliziotto e gli chiede cosa ha perduto.
«La mia chiave» risponde l’uomo e si mettono a cercare tutti e due.
Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì.
L’altro risponde: «No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio»”.
Paul Wastlawick, Istruzioni per rendersi infelici”

“Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato,
e l’uomo
è infine costretto ad affrontare con lucidità le reali condizioni della sua vita
e le sue relazioni con i suoi simili
Karl Marx, “Miseria della filosofia”

Giovedì 12 marzo 2020 si è registrata la più recente tra le giornate nere delle Borse:

Parigi -12,28%, Londra -10,87%, Francoforte -11,43%, Bruxelles -14,21%, Madrid – 14,06%, Milano -16,92 %. A New York, Dow Jones (indice industriale) -9,99%, Nasdaq (indice tecnologico) -9,43%, S&P500 (indice delle 500 aziende principali) -9,51 %. Contemporaneamente, crollavano anche le borse asiatiche, latinoamericane e africane.

Venerdì 13 marzo la Federal Reserve degli Stati Uniti (FED) annunciava il piano più aggressivo di stimolazione finanziaria varato dopo il 2008, anno d’inizio della Grande Recessione: tassi d’interesse a zero e acquisti di attivi nelle borse per 700 miliardi di dollari.

Ma le massicce vendite d’azioni proseguivano.

Lunedì 16 marzo l’indice S&P500 crollava del 12%, la borsa brasiliana del 13%. In Europa, Londra – 4%, Parigi e Francoforte – 5%, Milano – 6%, Madrid – 8%, Bruxelles – 7%. Nell’area Asia-Pacifico, l’indice Nikkei di Tokyo – 2,5 %, le borse cinesi tra il – 3 ed il – 4%, la borsa indiana – 8%, l’australiana – 9%.

Prima i ricchi

“La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento.
E puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”.

Francesco de Gregori, “Titanic”, 1982

Nelle attuali condizioni, la diminuzione dei tassi d’interesse serve a poco.

Teoricamente, serve a far diminuire il costo del finanziamento per evitare il crollo della spesa destinata al consumo e all’investimento.

Oggi è sostanzialmente una misura inutile:

  • le aziende diminuiranno l’investimento perché si aspettano un calo delle vendite e dei profitti;
  • le famiglie faranno altrettanto per il calo dei loro redditi e l’insicurezza sul loro futuro;
  • le banche dovrebbero aumentare i crediti concessi per mantenere la loro redditività, ma questo peggiorerebbe il loro indice di solvibilità.

Infine, bisogna tenere presente che il tasso zero è soltanto il tasso di riferimento. La FED lo applica solo per le sue operazioni con la banca privata.

La banca privata presta successivamente ai tassi di mercato. Questi sono abbastanza più alti, ma lo sono soprattutto quando i prestiti sono destinati alle aziende e alle famiglie maggiormente in difficoltà, quindi più bisognose ma a maggiore rischio.

L’altro versante della decisione della FED, spendere 700 miliardi di dollari per acquistare attivi, avrà invece l’effetto di salvare il patrimonio dei grandi proprietari di azioni e di buoni, ossia delle grandi imprese e delle persone più ricche del pianeta.

Dal 2008, grazie a questo tipo d’acquisti, la ricchezza del 10% delle famiglie più ricche è aumentata 115 volte di più di quella del 10% più povero.

È assolutamente logico.

Le grandi imprese hanno avuto guadagni straordinari dedicandoli al riacquisto delle proprie azioni o attivi finanziari, mentre le banche centrali si dedicavano all’acquisto di titoli (effetto principale del bazooka di Mario Draghi). Gli algoritmi che dominano il 70% delle operazioni di compravendita hanno completato l’opera.

La conseguenza è stata la crescita folle delle quotazioni.

Quando il panico si è sparso e le bolle hanno iniziato a sgonfiarsi, Trump e la FED sono intervenuti. Potrebbe funzionare nell’immediato ma, trattandosi di un placebo, non risolverà la malattia che, viceversa, continuerà a diffondersi in piena libertà.

È il capitalismo dei disastri. Naturalmente non si limita al campo economico.

Rimando ad un intervento successivo l’indicazione su alcune piste alternative, che esistono.

Per ora mi limito ad osservare che per evitare il crollo delle economie sono necessarie misure radicali, la prima delle quali consiste in mettere denaro in modo selettivo nelle tasche della gente colpita e nelle casse delle aziende, recuperando il flusso nei processi economici di base: produzione, distribuzione e consumo.

Questo non lo farà mai la banca che, logicamente, cerca di garantirsi prima la sua redditività.

Non lo faranno nemmeno i grandi investitori che recupereranno la loro ricchezza vendendo i loro attivi deprezzati.

Per praticare una politica più adeguata si richiedono tre condizioni:

– aiuti diretti e differenziati, anche a carattere strutturale;

– una banca pubblica che prenda in mano l’erogazione dei finanziamenti straordinari per affrontare situazioni di emergenza;

– uno stimolo fiscale e produttivo gigantesco, proporzionato al disastro in arrivo.

Le decisioni della FED hanno chiarito che, viceversa, com’è avvenuto con la crisi del 2008, la borsa ha la precedenza ed i ricchi vengono prima.

Annunciando queste misure il Trump dichiarava: “I mercati devono essere molto contenti”.

Ragionevole.

Altrettanto ragionevolmente, la gente comune non aveva motivi per rallegrarsi.

In Europa, al di là delle dichiarazioni rituali, l’andazzo è del tutto simile, almeno finora.

Non basta la sacrosanta necessità di aggiustarsi alle misure di quarantena decise dai governi.

Per la prima volta in molti anni esiste una base materiale per praticare una politica diversa in seguito al pensionamento del “Manuale dell’aggiustamento perpetuamente perverso”, noto anche come “Consenso di “Washington” e/o “Consenso di Bruxelles”.

Per la cronaca, il “Manuale del perfetto saccheggiatore” non è stato sospeso dalla Commissione Europea, che si è accollata a questo treno solo il 21 marzo. È stato sospeso dal FMI, il “Boia sostantivo”, che l’ha fatto esplicitamente il 16 marzo.

Si resta basiti osservando che il custode del neoliberismo si è collocato a sinistra di buona parte di ciò che era, e pare voglia continuare a pensarsi, come sinistra politica.

La purga

“Vanno, tutte le coppie vanno, vanno la mano nella mano
vanno, anche le cose vanno, vanno, migliorano piano piano
le fabbriche, gli ospedali, le autostrade, gli asili comunali
e vedo bambini cantare, in fila li portano al mare,
non sanno se ridere o piangere, batton le mani
far finta di essere sani”
Giorgio Gaber, “Far finta di essere sani”, 1973

Come ricordato, tra il 17 febbraio ed il 17 marzo le borse hanno subito una vera e propria purga:

A New York il Dow Jones ha perso il 32% e il S&P500 il 24%. A Londra, il Footsie – 31%, a Francoforte il DAX – 37%, a Bruxelles il Bel20 – 41%, a Parigi il CAC40 – 36,5%, a Madrid l’IBEX 35 – 38%, a Lisbona il PSI20 – 31,5%. La borsa brasiliana ha perso il 28%, quell’argentina oltre il 30%, quella indiana il 25,5%, quella sudafricana il 35%, quella russa il 40%, quella turca il 28%. A Tokyo, il Nikkei – 28%. A Hong Kong, il Hang Seng – 21%. A Sídney, l’ASX – 26%.

Solo Shanghai ha limitato le perdite, – 7,7%, per l’apporto delle aziende e dei fondi pubblici cinesi che, mentre tutti gli altri vendevano, hanno ricevuto l’ordine di acquistare sistematicamente azioni della borsa in piena crisi del coronavirus. Tra l’altro, la Cina ha così recuperato il pieno controllo sulle loro aziende finora in mano ad investitori esteri.

La conclusione è matematicamente lapalissiana: in un mese, le borse del pianeta hanno subito perdite comparabili o superiori a quelle subite durante le grandi crisi delle borse: 1929, 1987 e 2008.

Il saccheggio in versione virus sui poveri del nord e del sud

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di
Orione,
e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire”
Monologo del replicante Roy Batty, “Blade Runner”, film 1983

In parallelo, si è registrata una fuga di capitali – mai così accelerata – dai paesi poveri (“emergenti”, in neolingua).

Nei primi 50 giorni della crisi finanziaria del 2008, la fuga di capitali era stata di 20 miliardi di dollari.

Nei primi 50 giorni della crisi del corona virus, è stata di circa 60 miliardi di dollari.

Secondo un rapporto pubblicato il 20 marzo 2020 dall’Istituto della Finanza Internazionale, IIF, la banca che riunisce le principali banche e fondi d’investimento del mondo: “questa interruzione repentina dei flussi di capitale mette ad alto rischio i mercati emergenti che hanno bisogno di finanziamento esterno”.

Ossia, mette in pericolo tutti i “paesi emergenti”. Ma non solo loro.

Va da sé: un’entità così rispettabile come l’IIF non chiama le cose col loro nome: il coronavirus ha accelerato il saccheggio dei “paesi emergenti”.

Le conseguenze si faranno sentire presto sulla produzione e l’occupazione.

Mercoledì 18 marzo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha presentato il rapporto “Il COVID-19 ed il mondo del lavoro: conseguenze e risposte”.

Il rapporto parte ricordando che la crisi del 2008-2009 ha incrementato la disoccupazione di 22 milioni di persone, per aggiungere che il COVID-19 potrebbe aumentarla di quasi 25 milioni, colpendo soprattutto i gruppi più vulnerabili e aggravando le disuguaglianze.

Anticipa un aumento esponenziale della sottoccupazione, poiché la crisi sanitaria comporterà riduzione delle ore di lavoro e dei salari.

Anticipa enormi perdite di reddito per i lavoratori: tra 860 miliardi e 3,4 bilioni di dollari entro il 2020, che comporteranno un calo accentuato nel consumo di beni e servizi che si ripercuoterà sulla produzione, sulle imprese e sull’economie nazionali.

Aggiunge:

“L’impatto della pandemia avrà un effetto devastante per i lavoratori vicini o al di sotto della soglia di povertà … Tra 8,8 e 35 milioni di persone ingrosseranno le file della povertà mondiale. Proverranno fondamentalmente dai gruppi di persone con lavori precari e malpagati, particolarmente dai giovani e dai lavoratori di età avanzata, dai migranti, che scontano la mancanza di protezione e diritti sociali, e dalle donne, maggioritarie nei lavori a bassa remunerazione.”

La morte livella tutti?

Ma chi te cride d’essere … nu ddio?
Ccà dinto,’o vvuo capi, ca simmo eguale? …
… Muorto si’tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a ‘na’ato é tale e quale”.

Totò, “’A livella”

Malgrado i media ed i governi evitino accuratamente di dirlo, la mortalità derivata dalla pandemia in corso colpisce soprattutto chi ha bassi redditi e scarso patrimonio, ossia in base alla classe sociale di appartenenza.

Forse sarà troppo scontato dirlo, ma non credo sia lo stesso entrare in quarantena o accedere ad un servizio di rianimazione da poveri o da ricchi, indipendentemente dell’età.

La diversità fa capolino anche tra i paesi. Tutti hanno subito un peggioramento delle loro strutture sanitarie come stabiliva il vangelo neoliberista. Ma sussiste una bella differenza tra chi, malgrado le politiche neoliberiste, ha mantenuto un decente sistema sanitario pubblico e chi non l’ha mai avuto o l’ha barattato per qualche pacca sulla spalla.

Ad esempio, al 20 marzo il Ministero della Salute egiziana ammetteva 166 casi e quattro morti per corona virus nel paese mentre gli specialisti in malattie infettive dell’Università di Toronto (nell’ Ontario esiste una grande diaspora egiziana), combinando dati di voli, dati di viaggiatori e tassi d’infezione, scrivevano: “Secondo una stima conservatrice, in cui abbiamo eliminato i casi vincolati e ambigui, in Egitto ci sono 19.310 casi di corona virus”. Informazioni simili sono arrivate dalla corrispondente di “The Guardian” al Cairo, Ruth Michaelson, e dal capo ufficio del “New York Times”, Declan Walsh (David Hearst, “Denial, fear and dictatorship: Egypt’s coronavirus disaster”, “Middle East Eye” 19 March 2020).

Ad esempio, tra il 2000 e il 2017 in Italia il numero di posti letto pro capite in ospedale è sceso del 30%, ma nel 2018 la spesa pro capite per il sistema sanitario nazionale italiano si aggirava attorno ai 2.545 dollari (2.326 euro) annui, contro i 5.056 dollari della Germania, i 4.141 della Francia  ed i 3.138 del Regno Unito (dati del Report Osservatorio GIMBE n. 7/2019, “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”).

Per le conseguenze del neoliberismo, ricorro alla ammirevole sintesi di Eduardo Galeano:

“La Banca Mondiale elogia la privatizzazione della sanità pubblica in Zambia: «È un modello per l’Africa». Il giornale «The Zambian Post» completa l’idea: «Ormai non ci sono più le file negli ospedali, perché la gente crepa a casa sua» …

Il mondo è un grande paradosso che gira nell’universo. Di questo passo, di qui a poco, i proprietari del pianeta proibiranno la fame e la sete, affinché non manchino pane e acqua” (“Paradojas”, “La Jornada” 19 ottobre 2002).

E allora le borse

“È tutta una questione di soldi, il resto è conversazione”

Gordon Gekko, Wall Street, film 1987

Le borse sono nate per assolvere determinate ed essenziali funzioni dell’economie di mercato:

  • canalizzare il risparmio verso l’investimento necessario all’attività produttiva,
  • concedere liquidità a chi vende qualsiasi tipo di titoli (imprese, Stato o individui),
  • determinare il valore degli attivi finanziari e, poiché questi dipendono dal profitto atteso e, ovviamente, dell’andamento dell’economie, operare come una sorta di termometro indicativo su quanto avviene nelle aziende e nell’azione dei governi.

Da qualche decennio tutto questo fa parte di una teoria in disuso ma ancora presentata come “l’economia” negli atenei e da parte dei governi e dai media.

Col neoliberismo, invece di essere uno strumento perché le “carte” (i titoli finanziari), possano proporzionare le risorse per mettere in moto l’attività produttiva, le “carte” sono diventate “l’oggetto” di acquisti e vendite.

Le valute, ad esempio, non si acquistano per viaggiare, per acquistare prodotti o per fare investimenti all’estero, ma per guadagnare col cambio delle loro quotazioni.

Le azioni non si acquistano perché un’azienda vada bene e, quindi, offrirà ottimi dividendi, ma per guadagnare vendendola non appena aumenterà il suo valore o, peggio, per generarci un “prodotto derivato», ossia qualcosa di simile ad un’assicurazione ma più complessa che si vende e si acquista cercando una redditività puramente speculativa.

Quaranta o cinquanta anni fa non valeva la pena fare questo tipo di operazioni: erano lente, gli scambi erano troppo costosi, i quantitativi da vendere o acquistare avevano dimensioni ridotte. Con l’avvento delle tecnologie dell’informazione tutto è cambiato poiché grazie ai PC, alle fibre e agli algoritmi che decidono automaticamente, si possono realizzare miglia di operazioni in millesimi di secondo. Si guadagna poco in ogni operazione, ma poiché se ne fanno milioni al giorno (le macchine agganciano una borsa all’altra in tutto il pianeta), i profitti sono enormi.

Le banche (che guadagnano denaro prestando, ossia generando debito) ci hanno messo tutto ciò di cui c’era bisogno per finanziarle. Così, il credito bancario moltiplica in modo automatico e immediato la disponibilità di denaro per questo tipo di operazioni.

Ecco una delle cause della crescita esponenziale del debito nelle nostre economie.

Le conseguenze sono chiare.

Anzitutto, gli affari speculativi sono molto più redditizi di quelli legati alla produzione di beni e servizi per cui la redditività ed attrazione di questi ultimi è sempre minore.

L’attività finanziaria assorbe le risorse di cui avrebbe bisogno l’attività produttiva propriamente tale e la “finanziarizzazione” distrugge occupazione e provoca il non virtuoso rallentamento economico in atto.

In secondo luogo, essendo gli affari speculativi molto volatili, si moltiplicano le crisi ed il panico.

In terzo luogo, si provoca un incremento straordinario del debito.

Infine, si condiziona in modo perverso l’attività delle imprese: se vogliono ottenere finanziamenti non è necessario che producano dividendi.

Devono far in modo che la quotazione delle loro azioni sia la più alta possibile. La conseguenza macroscopica è che le maggiori aziende del pianeta non investono i loro profitti nell’attività produttiva ma nell’acquisto delle loro o altrui azioni, provocando un’ondata al rialzo la cui sola base è la speculazione.

Quindi, le borse sono diventate giganteschi casinò dediti al poker ed altri giochi d’azzardo che fanno crescere senza pausa i prodotti finanziari, le operazioni speculative loro legate e il debito connesso

Nessuna di queste dimensioni ha ormai un rapporto con l’attività produttiva. Ad esempio, la sola circolazione di valute, teoricamente destinate al commercio internazionale, supera di 21 volte il PIL mondiale e di 65 il volume del commercio internazionale di beni e servizi.

Quante pietre dovranno ancora rotolare?

Avevano pensato, non senza ragione,
che non c’è punizione più terribile di un lavoro inutile e senza speranza
Albert Camus, “Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo”

Le borse sono l’espressione grafica di una pazzia insostenibile persino per l’economia capitalistica.

Per i neoliberisti, il capitalismo funziona efficientemente poiché i mercati determinano i prezzi di riferimento per la presa di decisioni.

Ma se le borse seguono solo logiche speculative e sono manifestamente impazzite, lo stesso avviene per i prezzi, trascinando inevitabilmente verso la crisi un sistema produttivo i cui riferimenti sono inadeguati.

Non a caso, secondo uno studio del FMI, dal 1970 ad oggi ci sono state 107 crisi bancarie, 177 crisi valutarie 42 crisi di debito. Fa 326 crisi in tutto. Arrotondando, ci è piovuto addosso una crisi ogni 2 mesi con la puntualità di un treno svizzero.

La speculazione e la pazzia delle borse sono sempre pericolose, ma quando si scatenano nel corso di una tormenta possono avere effetti catastrofici.

Proprio quel che avviene ora.

Quando la vita di milioni di persone è sotto minaccia ed i governi cercano di mettere ordine nell’economia, i fondi speculativi si comportano come avvoltoi trasferendo l’estrema instabilità delle borse al resto dell’economia nonché all’insieme della società attraverso massicce iniezioni di paura.

Ad esempio, nelle cosiddette operazioni a breve termine, prendono un titolo (la cui stessa sopravvivenza, gli è del tutto indifferente non essendo nemmeno di loro proprietà normalmente), fanno una scommessa garantendo che la sua quotazione diminuirà e poi lo fanno deprezzare, cosa abbastanza semplice poiché dispongono di fondi miliardari e di un grande potere politico e mediatico. Dopo averlo fatto crollare, incassano il “premio del futures”. Poiché farlo 7.000-8.000 volte richiede loro lo stesso tempo che noi utilizziamo per sbattere le ciglia, riescono ad affondare qualsiasi titolo ma anche a rovinare uno Stato.

È già avvenuto.

È una follia mantenere operativa questa pazzia durante una crisi globale come quella che stiamo vivendo, quando una pandemia paralizza le economie con effetti imprevedibili ma comunque gravi.

Bisogna chiudere le borse per evitare che la sua pazzia speculativa distrugga il sistema finanziario mettendo le economie nazionali sull’orlo del precipizio e rendendo impossibile ricuperare l’attività produttiva delle imprese proprio quando ce ne sarebbe più bisogno.

Le borse sono già state chiuse in altre circostanze e la loro chiusura ha fatto ritornare la calma nei mercati e la ragione nelle aziende, evitando il panico ed i crolli generalizzati. Ad esempio, Wall Street è già stata fermata tre volte negli ultimi 15 giorni.

Oggi, solo le imprese più scorrette ed i fondi speculativi più potenti traggono benefici di quanto avviene. Bisogna chiudere le borse il prima possibile, ma questo deve essere deciso globalmente. Senza farlo, sarà impossibile evitare che si produca presto una disfatta finanziaria catastrofica.

Ma non basta l’imprescindibile chiusura delle borse mentre si prolunga la situazione di crisi. Servirà a poco per far fronte alle convulsioni che ci attendono a breve scadenza se, contemporaneamente, non si varano controlli fermi sui movimenti del capitale speculativo, anche perché la speculazione al di fuori delle borse (in mercati né regolati né controllati) è in forte crescita.

La proposta non ha nulla di estremista giacché persino il FMI ha riconosciuto la necessità di questi controlli quando i flussi di ingresso o di uscita siano dirompenti.

Lo sono già.

Lo saranno molto di più quando paesi grandi, ad esempio Italia o Spagna, dovranno finanziarsi nei mercati stante la probabile mancanza d’appoggio da parte dell’Unione Europea.

Mantenere aperte le borse col loro attuale funzionamento, lasciando liberi di agire i movimenti speculativi di capitale equivale a liberare un cane idrofobo nella sala operatoria dove si lotta a morte per salvare il malato o una volpe affamata nel pollaio.

È un atto irresponsabile e gravissimo, che potrebbe saldarsi in una tragedia di lungo respiro.

“[…] del crollo degli dèi una cosa si può dire con certezza: non è un crollo da poco; si frantumano fracassandosi o affondano giù in una melma verdastra. È una noia doverli ricostruire; non tornano più a brillare.”

John Steinbeck, “La valle dell’Eden”, 1952

R.A. Rivas 23 marzo 2020

Rodrigo Andrea Rivas

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