Il problema non è l’economia. Il problema è il potere
“A cosa serve scrivere misurando ogni frase,
a cosa serve pesare ogni azione, ogni gesto che spieghi la condotta
se il giorno dopo i giornali, i consiglieri, le agenzie,
i poliziotti travestiti,
i consulenti del gorilla, gli avvocati dei trust,
s’incaricheranno della versione più adeguata per il consumo d’innocenti o d’ingordi, fabbricheranno ancora una volta la bugia che si diffonde, il dubbio che s’installa,
e tanta buona gente in tanto paese e in tanta campagna di tanta terra nostra
che apre il suo giornale e cerca la sua verità, si ritrova
con la bugia truccata, il cibo al punto giusto, e va ingoiando
saliva prefabbricata, merda in pulite colonne […]
Siamo nell’ora degli sciacalli e delle iene.
Gli sciacalli vengono per le nostre ricchezze,
le iene per quanto avanzi dal festino”.
Julio Cortázar[1]
Uno dei presupposti più importanti della dominante teoria economica convenzionale afferma che i salari aumentano quando migliora la produttività del lavoro. Presentata come una legge economica, tutta la politica ne deduce che non esiste alternativa: bisogna applicare politiche orientate a facilitare la crescita della produttività.
Tra il 2000 e il 2007, il peso dei salari nei redditi nazionali dei Paesi dell’UE è diminuito del 1,6%. La media nasconde un dato ancora peggiore: in solo 17 delle 28 economie europee i salari diminuirono. Di conseguenza in Paesi come l’Italia la riduzione fu ben maggiore.
Non scapperà che gli anni indicati sono precedenti alla crisi economica conclamata.
Tra il 2010 e il 2018 il calo dei salari è stato dello 0,8%, e ha colpito sempre 18 Paesi (con qualche piccola variazione nella loro composizione).
Nella prima tappa (2000-2007), che ha visto il lancio della moneta unica, il PIL reale dell’UE è aumentato del 16,9%.
Anche nel secondo periodo (2010-2018), la crescita economica è stata positiva, più 12,6%, e solo la Grecia ha segnato un dato negativo.
La teoria economica, gli economisti ed i politici potranno affermare qualsiasi cosa ma questa evoluzione dimostra che, nella realtà, il percorso dei salari ha seguito una rotta del tutto diversa a quella della produttività.
Come ho provato a spiegare parlando della letteratura del potere, il fatto che le teorie e le politiche economiche siano costantemente in rotta di collisione con l’abbondante evidenza empirica disponibile non ha alcuna importanza. Peggio per la realtà.
Gli amanuensi, coscientemente o scioccamente servi, possono rigirare i dati fino a quando questi dicono ciò che conviene al potere o semplicemente ignorarli.
A comandare non sono i dati, la realtà dei fatti. A comandare sono le presunzioni ideologiche e gli interessi della classe dominante.
Rimando un’analisi sui fattori, diversi e complessi, che determinano il lento e insufficiente aumento della produttività – non ci sono dubbi che i primi sono la debolezza degli investimenti e l’espansione dell’attività finanziaria – ma, per il problema che qui ci interessa – il vincolo produttività-salari – dipende anzitutto dal come si distribuisce la sua crescita, qualunque sia il suo livello.
Il nodo gordiano da risolvere è quello della distribuzione tra salari e profitti, tra rendite da lavoro e rendite da capitale. Ogni ipotesi, riflessione o agenda di lavoro progressista non può che partire da qui.
Introdurre la distribuzione nell’analisi e dotarla della centralità che merita implica puntare al potere, al conflitto, alla politica.
Significa porre la riflessione sui processi economici all’interno dello spazio complesso, fertile e imprescindibile dei gruppi e delle classi sociali.
Presuppone ubicare l’economia negli spazi socio-istituzionali nei quali agiscono attori con diverse posizioni e strategie, e disuguali capacità per far valere i propri interessi.
In quel contesto non esiste alcuna garanzia – tantomeno una legge economica – che garantisca che i guadagni prodotti dalla produttività diventino salari.
Allo stesso modo nulla garantisce che i profitti degli imprenditori diventino investimenti produttivi oppure, tramite le tasse, contribuiscano a rinforzare la capacità finanziaria delle pubbliche amministrazioni.
Si tratta, rovesciando la logica analitica, di rompere radicalmente con le sorpassate (ammesso che abbiano mai funzionato) e inverosimili fondamenta del pensiero economico convenzionale, all’interno del quale l’intervento della politica e delle istituzioni da una parte, ed il conflitto dall’altra, costituiscono un’anomalia, un’interferenza nel funzionamento dei mercati.
Si tratta di sapere che, come affermava Karl Marx, “gli economisti hanno un modo singolare di procedere. Per loro ci sono solo due tipi di istituzioni, quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni del Feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia naturali. In questo somigliano ai teologi, che stabiliscono due classi di religioni. Ogni religione che non sia la propria è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione da Dio”[2]
Al centro del loro mito si trova l’idea pellegrina che i mercati, regolati dalla legge dell’offerta e la domanda e dal principio della concorrenza, sono per definizione e sentenza divina efficienti.
Il centro della loro narrazione poggia sempre sull’esistenza di un “homo oeconomicus”, che servendosi di tutta l’informazione disponibile adotta decisioni razionali e compensa i fattori produttivi – lavoro e capitale – in base al loro contributo alla produttività.
In questa narrazione non ci sono né classi sociali né una lotta per la distribuzione.
Il connubio tra una teoria economica e una finta economia crea una situazione estremamente conveniente per il potere, allontanando il centro della riflessione e dell’azione politica dai problemi distributivi e dalla condizione di estrema disuguaglianza riguardo le capacità degli attori coinvolti per impossessarsi dei guadagni della produttività.
Non esistono né una buona economia né un’economia socialmente rilevante se la narrazione resta ancorata ad un mercato senza attori, governato da una sorta di mano invisibile.
Ad esempio, dove sono in questa narrazione le corporazioni transnazionali – agroalimentari, industriali, commerciali e finanziarie – le grandi fortune ed i grandi patrimoni, le élite imprenditoriali, i grandi studi legali, i grandi consulenti e aziende di marketing e di pubblicità, i proprietari delle grandi aziende di comunicazione, le lobby e monopoli imprenditoriali?
Non è facile trovare informazione a questo riguardo perché l’establishment non ha alcun interesse a metterla a disposizione. Non aiuta nemmeno l’opacità dei mercati dove si materializzano o si nascondono una buona parte delle transazioni che investono questi attori. Ciò non esime della necessità di occuparcene, poiché è in questo ambito dove si trovano i principali ingranaggi e le principali distopie dell’economia realmente esistente e lì si trova la risposta al perché della sempre più iniqua distribuzione dei redditi e della ricchezza.
Come Brecht, penso che “chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia è un delinquente”[3].
R. A. Rivas
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[1] Julio Cortázar “Policrítica en la hora de los chacales”, “Revista Casa de las Américas n º 67”, luglio-agosto 1971, L’Avana. “Spiegazione del titolo: parlando dei complessi problemi cubani, un’amica francese, mischiando i termini critica e politica, inventò la parola “policritique”. Ascoltandola pensai (anche in francese) che tra poli e tique c’era la sillaba cri, e cioè urlo. Urlo politico, critica politica dove l’urlo è presente come un polmone che respira. Così l’ho sempre inteso, così continuerò ad intenderlo e a dirlo. Oggi bisogna urlare una politica critica, bisogna criticare urlando ogniqualvolta lo si reputi giusto: solo così potremmo finire un giorno con gli sciacalli e le iene.”
[2] Karl Marx, “Miseria della filosofia”, Editori Riuniti, Roma 1993. La prima edizione francese è del 1847.
[3] Bertolt Brecht, “Vita di Galilei”, versione berlinese (1956). Esistono due versioni precedenti, danese e statunitensi, non tradotte in italiano. Edizione italiana, Einaudi, Torino 2005.