Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (VI)

Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (VI)

Viviamo tempi in cui risulta terrificante essere vivi:
oggi è difficile pensare gli esseri umani come esseri razionali, dovunque dirigiamo lo sguardo vediamo brutalità e stupidità. Sembrerebbe persino che non ci sia altro da vedere; dovunque prevale una discesa verso la barbarie che siamo incapaci di evitare.
Ma penso che pur se è vero che esiste un deterioramento generale dei nostri comportamenti, proprio perché le circostanze sono terrificanti restiamo ipnotizzati e non ci accorgiamo – o se lo facciamo gli restiamo importanza – dell’esistenza di forze altrettanto potenti di natura contraria: le forze della ragione, della sensatezza e della civiltà.

Doris Lessing, “Le prigioni che abbiamo dentro. 5 lezioni sulla libertà”, Minimum Fax, Roma 1988

Le principali cause del deterioramento della situazione sociale italiana sono i rapporti di potere e di genere esistenti. Il determinismo tecnologico è un argomento alternativo per provare a nascondere questa realtà.

Dato che la natura non accetta il vuoto, in mancanza di alternative progressiste serie (come progetto e come forza), si dilatano i fascismi. Perciò è sempre più urgente darsi l’obiettivo di far virare di 180 gradi il senso delle politiche pubbliche. Tra queste, la prima su cui soffermarsi è quella della creazione di posti di lavoro.

Le aree dove più velocemente e più ampiamente oggi si può creare lavoro sono quelle legate allo Stato sociale, tutte aree in Italia poco finanziate e poco sviluppate.

In particolare, penso ai servizi di cura inclusi nel cosiddetto quarto pilastro del benessere, ossia le scuole per l’infanzia ed i servizi domiciliari, che facilitano l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro che, a sua volta, è l’intervento sociale più importante per migliore la situazione economica delle famiglie e del Paese.

Basterebbe avere la stessa percentuale di donne al lavoro che hanno i Paesi scandinavi (che hanno queste percentuali perché questi servizi esistono, non perché figlie di vichinghi), per avere 4,5 milioni di posti di lavoro in più, peraltro privilegiando il mezzogiorno dove, secondo i dati pubblicati dall’ISTAT nel maggio 2018 (dati riferiti al marzo 2018), le donne che lavorano non arrivano neppure al 30%, la più bassa percentuale a livello continentale.

Penso che persino un marziano capirebbe che 4,5 milioni in più di lavoratrici, stipendi, tasse e contributi al sistema pensionistico avrebbero un’incidenza assai maggiore sulla ricchezza del Paese, che ridurre ulteriormente i tempi di viaggio da Milano a Roma con qualche nuovo trenino a caro prezzo, o con mirabolanti specchietti per le allodole tipo il progetto “industria 4.0”. Senza parlare nemmeno di temi come il basso tasso di fecondità, almeno in parte derivato dalle difficoltà di conciliazione dei tempi di lavoro e di vita.

Il fatto è che, direbbero Fo e Jannacci, anche grazie a noi vilán, la vita di una donna italiana è piuttosto pesante: prima cura i bimbi, poi i giovani (che vivono in casa dei genitori, in media, fino ai 32 anni), poi i mariti e/o compagni, più gli anziani dei due casati e le persone con disabilità (in aumento). Che a livello nazionale lavori fuori casa mediamente il 50% delle donne sembra quasi un miracolo.

Il tutto quasi senza aiuto dello Stato, e quasi senza alcun appoggio da parte dei maschi, che continuano ad essere tra i più retrivi ad aiutare nelle faccende domestiche.

Al di la dei comportamenti individuali, comunque decisivi, l’Italia ha degli standard in politiche sociali al di sotto degli altri Paesi dell’UE-15, e persino inferiori al suo livello di sviluppo.

Non sarà popolare in un mondo neoliberista, ma bisogna dire che in Italia i lavoratori del settore pubblico sono assai di meno, percentualmente, di quelli tedeschi, francesi o inglesi. E che va ancora peggio riguardo agli occupati nei servizi dello Stato sociale, che non arrivano neanche a 1 ogni 10 adulti lavoratori, mentre in Paesi così arretrati culturalmente come quelli nordici la proporzione è 1 ogni 5.

In questo senso, la rifondazione di un pensiero alternativo al neoliberismo passa anche per occuparsi seriamente del sottosviluppo sociale dell’Italia, comprese cause e conseguenze.

Anche senza approfondire, mi appare del tutto evidente che questo sottosviluppo deriva, anzitutto, dello scarso potere delle donne nel Paese, e non credo che questa situazione possa risolversi tramite quote rose e simili, verso le quali comunque non ho nulla in contrario.

Nell’Italia 2018, il principale ammortizzatore sociale è la famiglia, la quale provvede a prestare tutti i servizi non dispensati dallo Stato. Tutte le ricerche dicono che c’è un crescente protagonismo dei nonni, ma non c’è dubbio che dire famiglia in questo caso vuol dire donna.

L’altro grande deficit di occupazione si lega alla messa in cura del territorio, e alla conversione energetica urgente e indispensabile del Paese.

Scrive l’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel suo rapporto del 2017 Decent work, Green jobs and the sustainable economy. Solutions for climate change and sustainable development:

Un’indagine globale e oltre 30 indagini nazionali ci portano alla conclusione che sia del tutto possibile creare fino a 60 milioni di posti di lavoro supplementari, entro il 2030, nell’economia verde.

Saranno anche possibili importanti progressi rispetto alla riduzione della povertà, soprattutto nell’agricoltura che impiega tuttora un lavoratore su tre, cioè oltre un miliardo di lavoratori nel mondo. L’accesso all’energia pulita e abbordabile, e l’efficienza energetica dei trasporti e delle abitazioni sono un potente mezzo di superare l’esclusione sociale. Da solo, l’accesso all’energia moderna migliorerebbe in modo significativo la vita degli 1,3 miliardi di persone più povere, e fornirebbe loro opportunità economiche completamente nuove.

Parlando di “lavori verdi per lo sviluppo sostenibile”, il rapporto afferma che se le energie rinnovabili rappresentassero il 20% della produzione primaria di energia (è uno degli obiettivi della strategia “Europa 2020”), in Italia si potrebbero generare, entro il 2020, oltre 150.000 posti di lavoro. Con il trasporto sostenibile (includendo i servizi, le attività industriali e la costruzione delle infrastrutture collegate), fino a 1 milione di posti di lavoro, e riabilitando 25 milioni di abitazioni per migliorarne l’efficienza energetica (pannelli solari, pannelli fotovoltaici e altre tecnologie simili, isolamento termico ecc.) altri 1,37 milioni di posti.

Il tutto senza addentrarci nel grande tema della messa in sicurezza del territorio, e soprattutto dando per buoni termini come “sviluppo sostenibile”, “lavori verdi”, e simili. Ma la critica al “pensiero verde” ci porterebbe lontano.

Per ora, per farla breve, provo a cavarmela con un’altra autocitazione:

Il capitalismo verde parte dall’idea che i grandi attori riconosceranno come interesse comune supremo controllare il catastrofico decorso dell’effetto serra.

Ma il riscaldamento globale non è la Guerra dei mondi, in cui i marziani si dedicano ad annientare tutta l’umanità, senza distingui. Viceversa, il cambiamento climatico inizierà producendo impatti assai disuguali in diverse regioni e classi sociali e rinforzerà, non diminuirà, la disuguaglianza geopolitica e i conflitti.

Come afferma l’ultimo rapporto sullo sviluppo umano, il riscaldamento globale rappresenta soprattutto una minaccia per i poveri e per le generazioni future, «i due gruppi umani con poca o nessuna voce».

Quindi, la teoricamente agognata azione globale coordinata presupporrebbe tramutare l’interesse egoista dei Paesi e delle classi sociali ricche in una «solidarietà» illustrata, che non ha precedenti storici. Razionalmente, potrebbe diventare una proposta realistica solo se si potesse dimostrare che i gruppi privilegiati non dispongono di alcuna opzione preferenziale di «uscita», se un’opinione pubblica internazionalista condizionasse effettivamente le decisioni politiche nei Paesi ricchi, e se la diminuzione delle emissioni di gas ad effetto serra potesse raggiungersi senza sacrificare drasticamente i livelli di vita degli abitanti (nativi) dell’emisfero nord. Nessuna di queste condizioni sembra probabile[i].

Ciò detto, penso che una qualsiasi transizione – che nella mia testa deve sempre comportare un’idea di miglioramento materiale dei soggetti della trasformazione stessa – si dovrebbe concentrare sulle aree tematiche ed i settori economici che possano realisticamente propiziare creazione di lavoro e di occupazione decenti. Ciò perché le basi per migliorare la qualità della vita e il benessere della popolazione e l’efficienza economica del Paese, lo dimostrano i dati, non l’ideologia, non riguardano né gli equilibri macroeconomici né la salvezza delle banche, ma per quanto banali, sono l’aumento dei salari, la protezione del lavoratore, la stabilità lavorativa e delle condizioni del lavoro.

Comunque, chiarisco che non sono un patito del lavoro. Stante la mia età avanzata però sono un portatore sano di questa idea non neutrale, un “lavorodipendente”, anche questa una tossicità difficile da risolvere positivamente.

Non mi reputo innocente, ma anche questa è una delle ragioni che mi portano a dire che bisogna, finché rincoglionimento lo permetta, lottare contro il conservatore che tutti portiamo dentro. Voglio dire che, pur ben sapendo che scrivere, ballare, cantare, fare l’amore, suonare la chitarra, giocare a calcio o dipingere siano attività non solo più gradevoli e adeguate all’umanità, ma anche meno dannose per il pianeta e la società, la mia perversità mi impedisce immaginare compiutamente una vita senza lavoro. Non mi riferisco, ovviamente, a “una vita in vacanza, il nuovo che avanza”, cantato da quelli dello “Stato sociale”.

Eppure, la mia razionalità mi fa dire che esistono poche pagine più centrate di quelle del cubano, genero di Karl Marx, Paul Lafargue:

Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui regna la civiltà capitalista. È una follia che porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la passione mortale per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro quest’aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti hanno santificato il lavoro, lo hanno sacralizzato. Uomini ciechi e ottusi hanno voluto essere più saggi del loro Dio; uomini deboli e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi dichiaro cristiano, economista e morale, contro il loro giudizio mi appello a quello del loro Dio; alle prediche della loro morale religiosa, economica, di liberi pensatori, oppongo le spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista. […]

Queste miserie individuali e sociali, per grandi e innumerevoli che siano, per eterne che appaiano, spariranno come le iene e gli sciacalli all’avvicinarsi del leone, allorché il proletariato dirà: «Lo voglio». Ma perché pervenga alla coscienza della sua forza, è necessario che il proletariato schiacci sotto i piedi i pregiudizi della morale cristiana, economica, libero-pensatrice; è necessario che ritorni ai suoi istinti naturali, che proclami i Diritti dell’ozio, mille volte più sacri e più nobili degli asfittici Diritti dell’uomo, escogitati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese; che si costringa a non lavorare più di tre ore al giorno, a non far niente e a far bisboccia per il resto della giornata e della notte. […]

Fin qui il mio compito è stato facile, non avevo che da descrivere dei mali reali a noi tutti, ahimè, ben noti! Ma convincere il proletario che la parola d’ordine che gli è stata inculcata è perversa, che il lavoro sfrenato al quale si è dato dagli inizi del secolo è il più tremendo flagello che mai abbia colpito l’umanità, che il lavoro diverrà un complemento del piacere dell’ozio, un benefico esercizio per l’organismo umano, una passione utile all’organismo sociale solo quando sarà saggiamente regolamentato e limitato a un massimo di tre ore al giorno, questo è un compito arduo al di sopra delle mie forze; solo dei fisiologi, degli igienisti, degli economisti comunisti potrebbero affrontarlo. Nelle pagine che seguono, mi limiterò a dimostrare che, dati i mezzi di produzione moderni e la loro illimitata capacità riproduttiva, bisogna reprimere la passione aberrante degli operai per il lavoro e obbligarli a consumare le merci che producono” [ii].

Come cantava Gaber nel 1972, “un’idea, un concetto, un’idea. Finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione”[iii].

Comunque sia, la precondizione per ricreare lavoro decente e diversamente distribuito implica puntare alla trasformazione politica. Per me ciò significa partire da un progetto chiaro, di vocazione indiscutibilmente progressista, con capacità di convocazione.

L’analisi dell’esistente, precondizione di qualsiasi lavoro che voglia porre i mattoni di una trasformazione, dovrebbe essere sempre la preoccupazione centrale, oggi più di ieri, del lavoro di un progressista.

Aggiungo che bisogna correre, se non vogliamo che ci pigli il treno dell’Armageddon.

Dal 1945, all’inizio dell’anno il “Bollettino degli scienziati atomici” rende pubblica la loro valutazione sulla vicinanza (o lontananza) dalla distruzione della civiltà grazie alle tecnologie che abbiamo sviluppato. Esprime questa distanza attraverso il suo “orologio della fine del mondo”. La mezzanotte indica la fine, i minuti che mancano la distanza dalla fine.

La valutazione prende in considerazione il cambiamento climatico, le biotecnologie e cyber tecnologie emergenti, e soprattutto la possibilità di uno scontro nucleare.

Secondo il rapporto 2017[iv], l’anno scorso siamo stati a 2 minuti della mezzanotte[v]. Non eravamo stati così vicini dal 1953, nell’apogeo della Guerra Fredda.

Chissà come andrà quest’anno, ma credo che con quanto è avvenuto recentemente in Siria ci siamo avvicinati ulteriormente.

Pur se da queste parti l’unico a sembrare seriamente preoccupato è stato il Papa, in violazione di ogni legislazione internazionale il 13 aprile 2018 gli USA, la Gran Bretagna e la Francia hanno attaccato la Siria con missili. Poiché ciò è avvenuto solo dopo che gli USA avevano raggiunto un patto con la Russia per limitare l’attacco, sono stati raggiunti unicamente tre obiettivi di scarsa importanza. Non ci sono stati morti civili né militari siriana, e nessuna postazione russa ha subito alcun danno. Ergo, Monsieur Macron potrebbe dire che è stata quasi una boutade.

Ma poteva andare molto diversamente. Stando alle fonti statunitensi, Trump ha deciso solo all’ultimo momento che l’attacco avesse un carattere limitato, escludendo obiettivi russi e iraniani.

Scriveva il “Wall Street Journal” il 16 aprile 2018:

Secondo fonti vicine alla presidenza, il presidente Trump aveva sollecitato il suo staff a prendere in considerazione attacchi su obiettivi russi e iraniani in Siria, ma il segretario alla difesa, James Mattis, è riuscito a fargli cambiare opinione. L’ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, ha chiesto con Trump una risposta più decisa, ma James Mattis ha messo in evidenza il rischio che un attacco più ampio scatenasse una risposta pericolosa di Mosca e di Teheran[vi].

Se si fossero realizzate le pretese di Trump ci troveremmo in una situazione molto diversa. Si ricorderà che la Russia aveva annunciato che avrebbe risposto a qualsiasi attacco contro il suo personale militare nel Paese. Da un serio scontro militare tra gli USA e la Russia alla guerra nucleare resta solo un passaggio.

E che sarà mai? Beh, secondo una serie di studi realizzati nel 2007, uno scontro nucleare ci porterebbe dritti al “inverno nucleare”. In altre parole, uno scontro nucleare tra le due superpotenze, oltre alle centinaia di milioni di morti provocati direttamente, produrrebbe una nuvola di fuliggine e polvere che coprirebbe velocemente tutta la superficie terrestre. Arrivata alla stratosfera ci resterebbe per anni, provocando, tra altri effetti, una diminuzione delle temperature di 7-8 gradi centigradi. Per avere un’idea di cosa significhi, basterà ricordare che durante l’ultima glaciazione, avvenuta 18.000 anni fa, la temperatura media diminuì di circa 5 gradi centigradi.

Ma se questa sarebbe la media, in alcune zone la diminuzione sarebbe ancora superiore, arrivando a meno 20 gradi nelle zone interne dell’America del Nord, e a meno 30 gradi in buona parte dell’Eurasia, incluse tutte le regioni agricole. Si prevede inoltre che non ci sarebbe alcuna produzione agricola per diversi anni, il che significa la fine dell’umanità, almeno così come la conosciamo.

Il Libro dell’Apocalisse recita:

Poi il sesto angelo versò la sua coppa sul gran fiume Eufrate, e le sue acque si prosciugarono perché fosse preparata la via ai re che vengono dall’Oriente. E vidi uscire dalla bocca del dragone, da quella della bestia e da quella del falso profeta tre spiriti immondi, simili a rane. Essi sono spiriti di demoni capaci di compiere dei miracoli. Essi vanno dai re di tutta la terra per radunarli per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente. (Ecco, io vengo come un ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti perché non cammini nudo e non si veda la sua vergogna). E radunarono i re nel luogo che in ebraico si chiama Harmaghedon.

E Rosa Luxemburg: “Socialismo o barbarie”.

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[i] Rivas R. A., “Andare oltre il capitalismo verde”, in “L’Altra pagina”, Città di Castello, dicembre 2008.

[ii]  P. Lafargue, Il diritto all’ozio (1887) Feltrinelli, Milano 1971.

[iii]  Giorgio Gaber, “Un’idea”, 1972. Negli album “dialogo tra un impegnato e un non so” e “far finta di essere sani”.

[iv] Consultabile in https://thebulletin.org/overview

[v] Consultabile in https://thebulletin.org/timeline

[vi]  Gordon Lubold e Dion Nissenbaum, “Trump Bowed to Pentagon Restraint on Syria Strikes”, “The Wall Street Journal”, New York 16 aprile 2018. Che Mattis, “cane rabbioso”, abbia fatto il moderato è curioso e preoccupante. Ci torneremo.

Rodrigo Andrea Rivas

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