Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (IV)
“Meglio tenere la bocca chiusa e sembrare stupido che aprirla e dissipare il dubbio” (Mark Twain)
“Tra tutti i topi Josephine è l’unica a cantare e, quando lo fa, ogni animale si ferma ad ascoltare.
Franz Kafka, “Giuseppina la cantante ossia il popolo dei topi” 1924
In realtà Josephine, convinta di cantare, semplicemente fischia, come tutti gli altri topi, anzi, forse persino peggio, ma solo lei, forse perché matta o arrogante, folle o geniale, si separa dalla miseria, consacrando tutta sé stessa al suo flebile canto indisponente.
Il suo allora diventa un fischio che scioglie le catene del quotidiano e consente al popolo dei topi un’esperienza liberata dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza.
Non importa che sia una topolina arrogante, faccia le scene, crei persino pericoli per i suoi simili … Arte o natura? Caducità o eternità? Piattezza o elevazione? O non piuttosto che il popolo, nella sua saggezza, abbia collocato il canto di Josephine così in alto proprio perché in tal modo non potesse andar perduto?”
I dati – l’evidenza scientifica esistente – mettono in dubbio che la rivoluzione robotica sia stata una delle cause importanti del deterioramento del mercato del lavoro.
Il primo fondamento moderno della tesi sulla scomparsa del lavoro si trova in un lavoro dei professori Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne dell’Università di Oxford, pubblicato il 17 settembre 2013 col titolo “The Future of Employment: How susceptible are jobs to computerisation?”. Secondo gli autori, in base ai loro studi il 47% dei posti di lavoro negli USA sono a rischio di scomparsa in seguito all’introduzione di nuove tecniche digitali come la computerizzazione dei posti di lavoro, includendo la loro robotizzazione. E dopo aver analizzato 702 posizioni nel loro testo, concludevano: i posti a maggior rischio di scomparsa sono quelli che richiedono meno formazione e percepiscono salari più bassi.
Questo studio ebbe una grande risonanza e creò una percezione diffusa: la rivoluzione tecnologica in corso – la cosiddetta rivoluzione digitale – è tra le più importanti rivoluzioni mai avvenute nell’evoluzione del capitalismo avanzato, ed è quella che avrà maggiori conseguenze sui mercati del lavoro.
Molti lavori accademici hanno questionato questa tesi fin dal 2013, ma questo materiale non sembra noto né all’OCSE, né tantomeno ai media, che salvo poche eccezioni, continuano a ripetere la pappardella pappagallesca: la rivoluzione digitale porterà alla fine del lavoro.
Cominciamo indicando un noto oppositore a questa tesi: lo statunitense Dean Baker, condirettore del “Center for Economic and Policy Research” (CEPR) di Washington D.C.
Secondo Baker, non c’è nulla che dimostri che questa rivoluzione, “ammesso che ci si sia”, rappresenti davvero una causa importante nella distruzione dei posti di lavoro negli USA.
Se la digitalizzazione o la robotica fossero causa importante nella scomparsa e distruzione dei posti di lavoro negli Stati Uniti, avremo dovuto avere anche una notevole crescita della produttività del Paese. Invece, negli ultimi dieci anni negli USA la produttività è aumentata appena di un 1,4% annuo, contro il 3% del periodo 1947-1973, anni in cui la grande crescita della produttività si associava ad una disoccupazione molto bassa e a salari molto alti.
Se confrontiamo il periodo 1947-1973, caratterizzato da una grande crescita della produttività, un tasso di disoccupazione molto basso, un alto tasso di occupazione e alti salari, con quanto è successo negli ultimi dieci anni, caratterizzati dalla bassa crescita della produttività, la disoccupazione alta, un tasso di occupazione basso e salari molto bassi, una domanda sorge spontanea: perché la grande crescita della produttività in quel periodo generò alti salari e molti posti di lavoro, mentre ora un mediocre aumento della produttività distruggerebbe molti posti di lavoro e porterebbe salari molto più bassi?
Sempre secondo Baker, dal 2000 la domanda di lavoratori poco qualificati e con salari bassi (30% della quota della forza lavoro a basso reddito) è stata molto superiore alla domanda di lavoratori specializzati e con alti salari.
Conclusione di Dean Baker: Salvo atti di fede, è quantomeno discutibile che robot, intelligenza artificiale e altri elementi della rivoluzione digitale siano responsabili dell’aumento della precarizzazione della classe lavoratrice. Anzi, l’attenzione alla rivoluzione digitale quale causa della perdita di posti di lavoro stabili ben remunerati ha un altro senso: evita che si analizzino le cause reali della precarizzazione, che non sono tecnologiche ma politiche, e dipendono soprattutto dalla debolezza del mondo del lavoro negli USA. È questa debolezza a permettere, tra altre conseguenze, che fin dagli Anni ’80 lo Stato assuma politiche pubbliche destinate ad indebolire i sindacati, che hanno ripercussioni molto negative sulla qualità del mercato del lavoro, sulla sua stabilità e sui suoi salari.
Ovvero: non è la rivoluzione digitale ma la controrivoluzione neoliberista a provocare la distruzione di posti di lavoro e la precarietà del lavoro esistente[1].
Che la rivoluzione digitale non sia tra le cause importanti del deterioramento del mercato del lavoro non significa che non possa eliminare posti di lavoro, pur se in percentuale assai minore di quelle che si indicano.
Ma c’è un’altra questione fondamentale: la rivoluzione digitale può anche facilitare la creazione di occupazione. Che faccia una cosa o il suo contrario “dipende”, canterebbe Jarabe de Palo[2], solo da chi controlla il disegno, l’uso e l’utilizzo dell’automatizzazione.
Ovvero, il risultato dipende dai rapporti di potere nel processo di produzione e distribuzione di beni e servizi, nonché dei media. Detto altrimenti, le conseguenze della Quarta Rivoluzione industriale dipenderanno dal contesto politico in cui si affermi. In un determinato contesto, la robotica può diminuire e persino facilitare la riduzione del tempo di lavoro e aumentare il suo godimento e piacere. In un altro può essere al contrario.
Esemplifichiamo velocemente.
Nelle fabbriche automobilistiche di Paesi dove il mondo del lavoro è debole (ad esempio negli USA, in Spagna, in Italia, nei Paesi del Terzo Mondo), l’automatizzazione distrugge il lavoro per alcuni mentre costringe altri alla plurioccupazione e all’aumento del numero di ore di lavoro. Usiamo lo specchio migliore, gli USA: nel 2014, il tempo settimanale di lavoro necessario perche la popolazione con salari più bassi (il 10% più basso) abbandonasse la condizione di povertà, è aumentato spettacolarmente; 45 ore per una persona sola, 55 ore per una persona con due bambini e 61 ore per una coppia con due bambini[3].
Viceversa, laddove il mondo del lavoro è forte, l’automatizzazione facilita una notevole riduzione del tempo di lavoro, ovvero, è una benedizione: libera il lavoratore dal sovraccarico e gli dona tempo di vita.
Avviene, ad esempio, in Svezia (dove quasi l’80% dei lavoratori è sindacalizzato): l’aumento della produttività (in parte derivato dall’automatizzazione), si è tradotto in riduzione degli orari di lavoro – sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana – in diversi settori economici, aggiungendo una grande flessibilità del tempo e delle condizioni di svolgimento del lavoro stesso[4]. Naturalmente, a parità di salari.
Va da sé: grazie all’automazione, il livello di soddisfazione del lavoro da parte di lavoratori e impiegati (ad esempio, nei servizi sanitari e in altri servizi pubblici), è molto aumentato. Va altrettanto da sé: è aumentata pure la produttività[5].
Ribadisco: come ogni tecnologia, anche quella della rivoluzione digitale può essere sia uno strumento di liberazione che di oppressione. Dipende da chi la controlli. Nelle selvagge condizioni del mondo neoliberista, può certamente peggiorare la qualità di vita della cittadinanza, sia in quanto lavoratori che in quanto utenti e consumatori. Ad esempio, se già ora in Italia è istruttivo sperimentare le difficoltà per stabilire un colloquio diretto con un impiegato di un’azienda di servizio pubblico, in seguito alla massiccia automatizzazione di queste aziende, negli USA, ad esempio, si sostiene che il controllo dell’industria della telefonia mobile da parte di istituzioni finanziarie interessate solo all’aumento della loro redditività, rappresenta un pericolo e una minaccia per la salute mentale e la maturità politica della popolazione.
Poiché il 5 maggio 2008 siamo stati informati che il Fondo statunitense Elliot ha acquistato la maggioranza della TIM dopo aver combattuto, parola della RAI, un’epica battaglia contro i francesi della Vivendi, mi auguro che non si venga presi alla sprovvista.
Nel 2017, l’Economic Policy Institute di Washington ha pubblicato “The zombie robot argument lurches on. There is no evidence that automation leads to joblessness o inequality”[6]. Si trattava di una critica puntuale e globale dell’articolo di Daron Acemoglu e Pascual Restrepo citato sel precedente capitolo, sulla cui base l’OCSE ha reso edotti i governi europei delle loro nuove cartucce giustificative a disposizione per tosare le popolazioni sprovvedute. Firmato da Lawrence Mishel e Josh Bivens, si possono così riassumere le loro argomentazioni contro l’Apocalisse robotico:
- a) Persino accettando che la distruzione di posti di lavoro sia conseguenza dell’automatizzazione (nessuno dei due autori lo accetta o lo considera minimamente provato), c’è da considerare che i posti di lavoro statunitensi distrutti dall’automatizzazione sono quattro volte di meno del numero di posti di lavoro persi per l’importazione di prodotti provenienti dalla Cina, la cui causa nulla ha a che fare con l’automatizzazione ma tutto ha a che fare con il minore costo della manodopera.
- b) Ci sono casi di distruzione di occupazione, ma ci sono altrettanti casi di creazione di occupazione. La crescita dell’attività economica generata dall’automatizzazione genera anche posti di lavoro.
- c) Non c’è alcuna correlazione storica tra l’incremento dell’automatizzazione e la riduzione salariale, o la crescita delle disuguaglianze. Negli Stati Uniti, l’automatizzazione è cresciuta molto velocemente alla fine del XX secolo e agli inizi del XXI secolo, mentre era in atto contemporaneamente un grande crescita dell’occupazione e dei salari.
- d) Non esiste evidenza sul fatto che si sia verificato una notevole crescita dell’automatizzazione durante la Grande Recessione. Anzi, il tasso di automatizzazione è diminuito proprio in quel periodo.
- e) Viceversa, la crisi sociale e del mondo del lavoro statunitense (che, tra altre conseguenze, ha portato alla diminuzione dell’aspettativa di vita della maggior parte dei lavoratori (maggioritariamente di razza bianca), è dovuta alle politiche pubbliche portate avanti dagli Stati (quello federale e quelli federati), che hanno portato a compimento, con successo, un attacco massiccio nei confronti del mondo del lavoro. Il successo di queste politiche è verificabile: i redditi da lavoro sono calati, i redditi da capitale hanno avuto una impennata.
Concretamente, negli Stati Uniti, la percentuale dei salari in rapporto al PIL è passata dal 69,1% nel 1970 al 60,8% nel 2017, un crollo di 8,3 punti percentuali, la stessa tendenza si è registrata nei Paesi europei: Germania (da 68,4% a 62,7%), Francia (da 71,4% a 67%), Italia (da 66,9% a 60,5%), Spagna (da 70,1% a 60,7%).
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[1] Dean Baker, “The job-killing-robot myth”, Paperback – 05 giugno 2015. Vedere anche le sue “Reflections on the Future of the Left (Building Progressive Alternatives)”, Paperback – January 16, 2018.
[2] Il testo, tradotto in italiano da Jovanotti, della canzone dello spagnolo Pau Dones Cirera (1988), recita: “Che il bianco sia bianco, che il nero sia nero, che uno e uno siano due, che la scienza dice il vero. […] Dipende, da che dipende, da che punto guardi il mondo tutto dipende”.
[3] OCSE, “Working Hours to Escape Poverty”, Paperback, Parigi 2016.
[4] Hardeep Matharu, “Employers in Sweden introduce six-hour work day. Some employers across the country, including retirement homes, hospitals and car centres, are implementing the change”, “The Independent”, Londra 1 ottobre 2016.
[5] Samuel Osborne, “Six-hour working day ‘boosts productivity and makes people happier’. Nurses who worked six-hour days were found to be 20 per cent happier and had more energy”, The Independent, Londra 11 maggio 2016.
[6] Lawrence Mishel y Josh Bivens, Economic Policy Institute, EPI, 24 maggio 2017. Consultabile in https://www.epi.org/publication/the-zombie-robot-argument-lurches-on-there-is-no-evidence-that-automation-leads-to-joblessness-or-inequality/.
Proprio in quei giorni, il governo italiano convocava una mega conferenza a Torino per discutere del rapporto OCSE e lanciare il “Piano Industria 4.0”. Con l’entusiasmo del neofita, “Infoimpresa” scriveva (11 maggio 2017): “La Presidenza Italiana del G7 mira a promuovere, di concerto con gli altri Paesi, un approccio olistico in materia di: innovazione produttiva, formazione, valorizzazione della ricerca scientifica, adeguamento delle politiche per il lavoro e per la protezione sociale, nonché diffusione di infrastrutture di qualità in grado di rafforzare l’accesso di persone, aziende e ricercatori alla Nuova Rivoluzione Industriale. Tutti temi destinati ad avere un impatto concreto sia in ambito nazionale che sul versante internazionale, con l’obiettivo di promuovere una trasformazione tecnologica delle nostre realtà produttive che ponga le “persone al centro”. Consultabile in https://www.giornaledellepmi.it/presentazione-del-rapporto-ocse-la-nuova-rivoluzione-industriale-implicazioni-per-i-governi-e-per-le-imprese/