Il Putin calciatore

 

Una vita da mediano/a recuperar palloni/nato senza i piedi buoni/lavorare sui polmoni.
Una vita da mediano/con dei compiti precisi/a coprire certe zone/a giocare generosi

Ligabue, Luciano Ligabue, “Una vita da mediano”, in “Miss mondo”, 1999

Intro: Dopo essere stato ucciso da un sicario, il giornalista russo Arkadij Babchenko, rifugiato in Ucraina per sottrarsi alle minacce derivate dalle sue critiche al Cremlino, è miracolosamente risorto.

“La moglie lo aveva trovato in una pozza di sangue fuori dalla porta di casa a Kiev, lo aveva visto salire moribondo sull’ambulanza e poi i medici e la polizia erano tornati indietro per dirle che era morto durante il tragitto. Nessuno credeva davvero che le indagini avrebbero consegnato il nome di un colpevole, girava un identikit a matita. Il presunto assassino che tutti cercavano per le strade della capitale ucraina, intorno al quartiere Dnipro, era ritratto con un cappellino in testa, barba e bavero alzato”[1].

“In mattinata il premier ucraino Volodymyr Groysman aveva accusato Mosca dell’omicidio, scrivendo sul proprio profilo Facebook: «Sono sicuro che la macchina del totalitarismo russo non gli ha perdonato la sua onestà e le sue posizioni di principio»”[2].

Probabilmente il Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU), autore del piano, voleva dimostrare l’insana crudeltà del Cremlino, a pochi giorni dall’inizio del mondiale di calcio in Russia (14 giugno). La farsa teatrale potrebbe intitolarsi “Putin esibisce davanti al mondo le sue mostruose capacità di mangiarsi vivo chiunque osi mettere in dubbio la bontà delle sue politiche”. Catenaccio: “Si dimostra ancora una volta come Putin sia poco abile e grossolano”.

Anche se il rischio di un attentato contro Babchenko potrebbe essere veramente esistito, il resto della storia è ancora più grottesco.

Ripresentando il miracolato, l’SBU ha accusato Putin di essere il cervello di una presunta cospirazione di cittadini ucraini che, per ben 40mila dollari, avrebbero pianificato l’assassinio di trenta (30) figure politiche dell’Ucraina (1.333 dollari a cranio. Roba da denuncia della Unione internazionale dei sicari, UIS). Nulla si è detto né dei congiurati né delle vittime, ma i cospiratori avrebbero ricevuto ordini da un individuo che nessuno conosce. Si sa solo che si tratta del titolare di un fondo bancario intestato a Putin per destabilizzare il governo di Petro Poroshenko.

Né del Fondo, né della destabilizzazione, né della cospirazione si era mai saputo qualcosa prima, e ad oggi si sa quanto appena raccontato, e cioè nulla. Questa storiella incoerente – sostengono i protagonisti di questo “Racconto criminale” casereccio – con la vittima bagnata con sangue di maiale e con addosso una t-shirt crivellata da pallottole, trasportata in un’ambulanza senza che nessuno si accorgesse che era viva, e che appena arrivata all’obitorio si è messa a guardare la TV (Babchenko dixit), era indispensabile per smascherare i componenti della rete di agenti al servizio della Russia.

Il sicario, racconta ancora l’SBU, aveva visto la sua vittima allontanarsi da casa, ma, aveva dedotto, solo per andare a prendere il pane. Al suo ritorno, 10 minuti dopo, l’aveva riempito di pallottole, ovviamente mentre era girato di spalle. L’intermediario (quello che aveva ordinato l’assassinio), agiva per conto di un’altra persona non identificata. Avendo ascoltato al TG che il giornalista era morto, era corso la mattina dopo a pagare il pistolero. Contemporaneamente, gli aveva consegnato l’elenco degli altri personaggi da assassinare.

La confusione non è da me voluta. La trama, degna di figurare tra i pretendenti ai contro Oscar, secondo il governo di Kiev illustra un grande successo dell’SBU, che avrebbe così smantellato la più pericolosa rete di nemici di un’Ucraina libera e democratica.

Il solo consiglio possibile è di trovare un migliore sceneggiatore per la prossima puntata.

Questa storiella esemplare permette però di trattare questioni ben più serie.

A pochi giorni dall’inizio del Mondiale di calcio in Russia, si può prevedere che si tratterà di una prova complessa e pericolosa per il regime. Il tema non è l’esito sportivo ma il ruolo internazionale del gigante euroasiatico.

Attorno al 10 giugno dovrebbero essere arrivate in territorio russo 32 squadre nazionali, con le loro autorità istituzionali e oltre un milione e mezzo di tifosi, migliaia di giornalisti, figure internazionali di altri sport, dello spettacolo, e soprattutto della politica (presidenti, primi ministri, segretari di enti sovranazionali, ministri, parlamentari e giudici, provenienti dalle 32 nazioni partecipanti, nonché dai Paesi eliminati nei turni di classifica, come Italia e Olanda ad esempio). E non saranno a Mosca, bensì distribuiti nelle 11 sedi dove si giocheranno le partite.

Da anni la figura di Vladimir Putin ha acquisito un peso internazionale che supera ampiamente il suo ruolo nel governo russo. Al di là delle opinioni che ognuno possa avere al suo riguardo, il punto è che tra i capitoli più importanti dell’agenda internazionale non ce n’è uno per il quale gli analisti non si chiedano cosa farà Putin?

Il fatto è che, con Putin, la Russia ha abbandonato i panni della potenza vinta che aveva assunto dopo il crollo del Muro di Berlino, per ridiventare una potenza centrale che non può essere ignorata.

La Russia e Putin ben conoscono il terrorismo messianico del wahhabismo. Se lo ritrovarono in Afghanistan, nella crociata internazionale contra Mosca (oltre agli Stati Uniti, coinvolse la Gran Bretagna, la Francia, l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Egitto, Israele, il Pakistan e, come ultimo anello, i mujaheddin afghani).

Con l’ex URSS in pieno caos, l’amministrazione di Bush padre cercava di destabilizzare tutta l’Asia centrale, inclusa la Federazione Russa, approfittando del collasso economico indotto dalla era Yeltsin.

Nel 1990, Halliburton, l’azienda multinazionale dell’allora segretario alla difesa statunitense Dick Cheney, metteva sotto esame le potenzialità petrolifere delle aree costiere dell’Azerbaigian, del Kazakistan e di tutto il bacino del Mar Caspio. Ne concludeva che la regione era un’altra Arabia Saudita.

Per mantenerla fuori dal controllo russo, Washington tentava, anzitutto, un colpo di Stato in Azerbaigian contro il presidente eletto Abulfaz Elchibey, per installare un presidente più disponibile al controllo statunitense sull’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), che trasporta il petrolio da Baku al Mediterraneo attraverso la Georgia e la Turchia.

A quell’epoca, il solo oleodotto esistente in partenza da Baku percorreva Grozny, capitale della Cecenia, e la Repubblica del Daghestan (Federazione russa), per arrivare al porto russo di Novorossijsk, sul Mar Nero. Era l’unico concorrente, quindi il principale ostacolo, della costosissima rotta alternativa utilizzata dalle grandi petroliere statunitensi e britanniche.

Bush padre ordinava allora ai suoi vecchi amici della CIA (ne era stato il direttore tra il 1976 e il 1977), la distruzione dell’oleodotto russo. Ordinava altresì la diffusione del caos nel Caucaso, per rendere impossibile che qualsiasi impresa ne prendesse in considerazione l’utilizzo.

Graham E. Fuller, vecchio collega di Bush ed ex Direttore del Consiglio Nazionale d’Informazione della CIA, principale architetto della strategia costruita attorno ai mujaheddin, descriveva così la strategia della CIA nel Caucaso agli inizi del 1990: “La politica rivolta a guidare l’evoluzione dell’Islam e ad aiutarli contro i nostri nemici ha funzionato meravigliosamente bene in Afghanistan contro l’Esercito Rosso. Possiamo utilizzare la stessa politica per destabilizzare ciò che resta del potere russo”[3].

Negli Anni ’90, il conflitto in Cecenia vide due sanguinose guerre le cui conseguenze sono ancora irrisolte trent’anni dopo.

Poiché i traumi del terrorismo e del fondamentalismo islamico sono freschi nella memoria dei russi, a nessuno è apparso sorprendente che, avvicinandosi alla data d’inizio del mondiale, siano state messe in stato d’allerta tutte le forze di sicurezza. Dovranno reggere per oltre un mese.

Indubbiamente, Mosca è il nemico dichiarato delle migliaia di mujaheddin che hanno sognato la costituzione di un Califfato tra la Siria e l’Iraq. Oltre all’altissimo prezzo pagato dai siriani, la Russia ed i suoi alleati (le milizie curde, i comandi Al-Quds dell’Iran, gli Hezbollah e l’Esercito Arabo Siriano, EAS), hanno smantellato questo progetto di distruzione della Siria che ha visto il protagonismo di oltre 130 mila combattenti delle diverse organizzazioni tafkiriste arrivate da tutto il mondo a combattere per il loro Dio, magari direttamente provenienti dalle scuole coraniche (madrasa) finanziate da Riyadh dalla Nigeria alle Filippine. A loro si aggiunge “l’inimicizia” verso la Russia dei Paesi della NATO, d’Israele e delle monarchie wahabite del Golfo Persico.

Da tempo, l’occidente spara con tutta l’artiglieria contro la Russia di Putin con accuse di ogni tipo. La si responsabilizza di essere dietro i gruppi separatisti della regione orientale dell’Ucraina dopo il golpe di Poroshenko, delle guerre in corso nel Donetsk e nel Lugansk, della separazione della Crimea dall’Ucraina, dell’intervento di pirati informatici nelle ultime elezioni negli Stati Uniti e dell’attacco, con un agente neurotossico, contro l’ex spia britannica di origine russa Serguei Skripal e di sua figlia. Inoltre, la si accusa della caduta di un aereo della Malaysia Airlines (MH17) in volo, nel luglio 2014, da Amsterdam a Kuala Lumpur, che sarebbe stato colpito da una batteria missilistica BUK installata nell’oriente ucraino, la zona della guerra separatista, nella quale sono morte 298 persone.

Il punto debole dell’offensiva antirussa sembrerebbe la debolezza della opposizione interna, specie in seguito alle ultime elezioni presidenziali (marzo 2018), vinte da Vladimir Putin con il 77% dei voti.

Secondo gli esperti di sicurezza, le possibili azioni terroristiche di questo periodo in Russia avranno come protagonisti dei “lupi solitari”, non delle cellule terroristiche.

Va considerato che la Russia è stata il principale serbatoio di combattenti, si stima 3.000 uomini, che hanno combattuto nelle guerre in Siria e Iraq nelle file del Daesh (Isis) e di al-Qaida. Provenienti fondamentalmente dalla Cecenia, dal Daghestan e da altre regioni del Caucaso settentrionale, sono rientrati a casa più fanatici che mai. E con molta esperienza in più. La paura è che tentino qualche azione approfittando della grande ripercussione mediatica legata al mondiale di calcio.

Durante i XXII giochi invernali svoltisi a Soci, nel 2014, ci furono diversi attacchi da parte degli islamisti, ma la sicurezza russa riuscì allora a fermarli.

Dopo Soci la Russia ha subito altri attacchi, come l’attentato alla metropolitana di San Pietroburgo (aprile 2017), che ha provocato 16 morti e oltre 50 feriti.

Inoltre, questa volta l’impegno è di gran lunga superiore, poiché le persone ed i luoghi da proteggere sono molto più numerosi, e perché qualsiasi attacco, anche piccolo, sarà amplificato dalla stampa internazionale.

In questo senso si potrebbe dire che se è difficile pronosticare il mondiale, è facile identificare chi buona parte del mondo vorrebbe perdente: il presidente (lo zar, per la stampa occidentale), Vladimir Putin.

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[1] Micol Flamini, “Cosa non torna nella finta morte del giornalista russo””, “Il Foglio”, Roma 30 maggio 2018. Consultabile in https://www.ilfoglio.it/esteri/2018/05/30/news/cosa-non-torna-nella-finta-morte-del-giornalista-russo-197905/

[2] “È vivo Arkadij Babchenko, il giornalista russo dato per morto in Ucraina”, “La Repubblica”, Roma 30 maggio 2018. Consultabile in http://www.repubblica.it/esteri/2018/05/30/news/e_vivo_arkady_babchenko_il_giornalista_russo_dato_per_morto_in_ucraina-197742998/amp/

[3] Citato da F. William Engdahl, “What if Pitin is Telling the Truth?”, NewEasternOutlook Website, 15 maggio 2015. Consultabile in https://www.bibliotecapleyades.net/sociopolitica/sociopol_russia35.htm

Rodrigo Andrea Rivas

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