I 12 anni e un mese di solitudine di Lula

A scanso di equivoci, non pretendo di raccontare una storia obiettiva. Come già Erodoto ci spiegò, i fatti possono essere raccontati come cronaca – e allora saremmo al buon giornalismo (o al lavoro storico), oppure isolando alcuni fatti, in modo necessariamente arbitrario, per raccontare una storia. In questo caso siamo al lavoro del romanziere (o del passacarte).

Vedete voi.

Former Brazilian president Luiz Inacio Lula da Silva reacts during a meeting with intellectuals at Oi Casa Grande Theater in Rio de Janeiro, Brazil, on January 16, 2018. / AFP PHOTO / MAURO PIMENTEL

Stando alle cronache, a inizio giugno 2018 Lula ha a disposizione una bicicletta senza ruote, una TV e un pugno di libri. Bicicletta e TV sono state frutto di una lunga trattativa con i giudici. La bici gli serve per combattere l’ipertensione (gliela prescrisse un medico dopo che aveva superato un cancro), la TV gli serviva per guardare la finale del campionato di calcio giocato dal suo Corinthians, che, per la cronaca, ha vinto il campionato 2017. Per bontà dei carcerieri, l’apparecchio televisivo è rimasto all’interno dei 15 metri quadrati con bagno e finestra sbarrata che costituiscono la sua cella a Curitiba.

Lula ci è entrato accusato di corruzione passiva e riciclaggio di denaro, nel quadro dell’Operazione Lava Jato, perché il Tribunale “ha reputato credibile” la supposizione in base alla quale sarebbe il proprietario di un appartamento al mare che gli sarebbe stato regalato dal colosso dell’edilizia Oas, per la sua mediazione in tre contratti tra l’Oas stessa e l’azienda statale Petrobras.

La sentenza, sostiene un centinaio di giuristi brasiliani e internazionali, si caratterizza per la “fragilità e la mancanza di prove”. Da non giurista, mi limito a constatare che, finora, non ci sono prove materiali del fatto che Lula fosse proprietario dell’immobile in questione. La testimonianza dell’ex presidente della Oas Leo Pinheiro, che secondo i suoi detrattori lo incastrerebbe, è stata ottenuta in carcere in cambio di un notevole sconto di pena[i].

Ciononostante, il giudice Sergio Moro ha anticipato di una settimana la tempistica legale del suo arresto. Per la sinistra brasiliana è la prova della persecuzione politica. Con i vari incontri e gli assortiti bunga bunga in versione carioca, tra lo stesso giudice e i politici del PSDB (il partito di opposizione al PT per eccellenza), alimenta la tesi che il carcere per Lula abbia come scopo toglierlo della corsa alla presidenza, quando tutte le inchieste lo danno largamente favorito.

Ma non bastava il carcere. Per “la pedina chiave di tutta l’operazione Lava Jato”, si sono adottati anche protocolli speciali, come il già citato arresto anticipato. Inoltre, secondo Moro, trattandosi di un ex presidente, si è adottato un “trattamento particolarmente favorevole”. Ovvero Lula è stato spedito in un carcere particolarmente comodo. Secondo i suoi partigiani si tratta esattamente del contrario: così è stato totalmente isolato. Sarebbe, affermano, una raffinata forma di tortura.

Stiamo ai fatti: per passare i suoi dodici anni e un mese di reclusione, Lula è stato condotto in una stanza sita nel quarto piano della Polizia Federale di Curitiba. Mai questo spazio era servito per rinchiudere qualcuno, e quindi si tratta di un carcere davvero speciale. Ed è anche vero che, così, Lula è diventato il primo detenuto dell’Operazione Lava Jato in regime di isolamento: ad eccezione delle due guardie che si danno il turno per controllarlo, non ha nessuno con cui parlare. Per il resto, tout ça va bien, madame la marquise: prima colazione alle 7, pranzo alle 11, merenda alle 15, cena alle 19, anche se solo, sempre solo. Per di più, a 73 anni dispone di due ore di luce solare al giorno, ma i giovedì possono visitarlo i familiari.

Per combattere la sua solitudine, il Movimento dei Sem Terra ha organizzato un accampamento a meno di un chilometro dal commissariato. Alle 9,00 del mattino, tutti i giorni, Lula ascolta un “buon giorno, presidente”. Alle 19,00, tutte le sere, un “buona sera, presidente”, urlati da un centinaio di accampati che gli ricordano che fuori c’è ancora vita.

Durante il primo mese di prigione nessuno dei dirigenti del suo partito è riuscito a vederlo. Non ci sono riusciti nemmeno Leonardo Boff e Adolfo Pérez Esquivel, rimasti per lunghe ore davanti all’edificio.

I familiari raccontano che si consola leggendo le centinaia di lettere che riceve da tutto il Paese. Le ha chieste il PT, che subito dopo l’arresto, ha pubblicato diversi avvisi sui giornali chiedendo ai lulisti di dimostragli così il loro appoggio: ce l’ha chiesto lo stesso Lula. Ha bisogno dell’affetto della sua gente. Essendo molto socievole, la peggiore punizione che possono imporgli è impedirgli di comunicare.

Ad eccezione dei suoi fedeli più stretti, tutti concentrati a Curitiba, nel resto del Brasile sembrano imperare silenzio e oblio. Non ci sono manifestazioni per chiedere la sua libertà, né per protestare per la sua prigione. Le bandiere rosse dei petisti hanno abbandonato le strade, perplesse e stanche. E sono zitti anche coloro che organizzavano la sua agenda: “Abbiamo bisogno di tempo per dire qualcosa”, ripetono da settimane. A me ricordano tanto la buon’anima di Nanni Moretti, quando dopo una invettiva di Berlusconi, chiedeva: “Dai D’Alema, dì qualcosa di sinistra … Quantomeno, dì qualcosa”.

 

Lula non è solo isolato, ma è anche accerchiato economicamente. Tre giorni dopo il suo arresto, il Tribunale Federale ha ordinato il blocco dei suoi beni, nonché di quelli del presidente dell’Istituto Lula, Paulo Okamotto, per un debito verso l’Agenzia delle entrate di quasi 7 milioni di euro.

Fino a quel momento l’Istituto Lula era considerato un’ONG senza fini di lucro. E pagava le tasse in base a questo status. Poco prima del suo arresto, il Tesoro ha annullato queste possibilità sostenendo che alcune delle sue attività non rientravano nella definizione di ONG. Ergo, doveva pagare le tasse arretrate.

Secondo Okamotto, “oggi la famiglia Lula non riesce neanche a pagarsi la luce elettrica. Il solo scopo di questa decisione è limitare ulteriormente le possibilità di difesa dell’ex presidente e costringere alla chiusura dell’Istituto Lula” (dichiarazioni a “O Globo”, San Paolo 10 maggio 2018).

Sempre secondo Okamotto, l’Istituto Lula aveva ossigeno per non più di un mese. Naturalmente, il PT ha provato ad aiutarlo. Così ha organizzato una campagna di crowdfunding per raccogliere 150.000 euro attraverso Internet. Dopo una settimana, ne aveva raccolti 45.000, ma, piccola sorpresa, il Tribunale Federale li ha bloccati destinandoli all’Agenzia delle entrate. Comunque, il PT sta studiando un’altra campagna, questa volta per raccogliere – non in soldi ma in natura – quanto servirebbe per salvarne la sezione accademica e sociale, che ha già dovuto mandare a casa la metà dei suoi lavoratori.

Il 20 maggio il giudice federale Haroldo Nader ha colpito anche gli assistenti più vicini a Lula, ordinando la cessazione immediata del pagamento degli stipendi per otto persone pagate dalla presidenza della repubblica, un vitalizio concesso a tutti gli ex presidenti del Brasile. Secondo il magistrato, essendo in prigione non ha bisogno di protezione – quattro tra questi lavoratori si occupavano della sua sicurezza – né di alcun assistente, dato che non esercita alcuna attività. Il ragionamento non fa una grinza.

Sul piano giudiziario, nel mese di maggio il Supremo Tribunale Federale (STF) ha respinto tre richieste di habeas corpus. A New York, l’ONU ha respinto lunedì 28 maggio la misura cautelare presentata dai suoi avvocati per chiederne la libertà provvisoria fino all’esaurimento dei ricorsi legali, teoricamente garantiti a tutti i brasiliani. Barcamenandosi formalmente, accade spesso, attraverso il suo Comitato per i diritti umani, ha deciso di studiare le denuncie interposte dai suoi avvocati per “mancato rispetto delle garanzie fondamentali del reo”.

Né la solitudine, né il carcere, né la condanna a dodici anni e un mese di prigione, né la mancanza di risorse hanno fatto cambiare idea a Luiz Inácio Lula da Silva. Malgrado tutto, il due volte presidente del Brasile (2002-2010), intende essere il candidato del PT nelle elezioni di ottobre 2018. Oltre qualsiasi considerazione, vive la sua candidatura come un atto simbolico con cui ribadire la sua innocenza.

Malgrado l’isolamento e il silenzio dei media Lula è ancora favorito con un 20% delle dichiarazioni di voto (ne aveva il 27% prima di andare in galera). Domenica 27 maggio il PT ha presentato ufficialmente la sua precandidatura alla presidenza in ogni città brasiliana. Lula ha comunicato ai suoi: “Non importa se in ogni manifestazione ci sono cinque, dieci o cinquecento persone. Ciò che conta è la somma dei brasiliani che chiariranno: Lula è il mio candidato. Non cerco né voglio un indulto. Voglio che si riconosca la mia innocenza”.

I media brasiliani hanno chiesto di poterlo incontrare in prigione per sentirlo, come a tutti i precandidati. Permesso negato dalla Polizia Federale. Negata anche, questa volta dai giudici, la richiesta fatta dai suoi avvocati perché un suo rappresentante possa partecipare ai dibattiti televisivi.

Lula potrà iscriversi come candidato fino al 15 agosto. Lo farà. Il 16 agosto, prenderà le redini il Tribunale Superiore Elettorale (TSE). Con ogni probabilità, vieterà la sua partecipazione alle elezioni perché condannato in appello.

Mancherà, a quel punto, meno di un mese alle elezioni e, quanto meno allora, probabilmente il PT dovrà tirare fuori un piano B che ad oggi sembra inesistente.

Ultimo appunto:

da qualche giorno è in atto uno sciopero dei camionisti brasiliani. Protestano per l’aumento del gasolio che, da quando c’è il governo Temer, aumenta in media 3 volte al mese (a fine maggio costa circa 1,5 euro al litro)

In un Paese in cui il 70% della movimentazione di merci e persone avviene tramite gomma, le conseguenze sono state immediate e pesantissime. Scuole, aeroporti, ospedali chiusi. Milioni di litri di latte buttati via. Scomparsa di ortaggi e verdure in tutte le città, richiamo dei militari a presidiare il territorio…

Insomma, siamo letteralmente ai carri armati in giro sulle strade.

Più che probabilmente, il governo cederà ai camionisti. Anzitutto, ha già sospeso gli ultimi aumenti impegnandosi a pagare coi soldi pubblici i mancati guadagni di Petrobras.

Tuttavia, si fa largo un’altra ipotesi: privatizzare definitivamente l’energia. L’argomentazione è arcinota: fa bene alla concorrenza, la gente normale avrà tutto da guadagnarci.

Privatizzare Petrobras vuol dire, però, privatizzare anche il Presal, ovverossia, il più promettente nuovo giacimento di greggio nell’area.

Aggiungetelo al petrolio del più settentrionale fiume Orinoco, dove gli Stati Uniti e la destra ben colgono le occasioni offerte da un governo che vorrebbe essere assai conciliante ma non è loro.

Venezuela + Brasile uguale consolidamento della cassaforte statunitense, necessaria per far fronte a ben più agguerriti nemici dall’altra parte del mondo (Iran, Russia, Cina).

Molti tra quelli che spingono questo progetto in Brasile, sono stati coccolati e sostenuti da Lula. Erano i campioni della industria nazionale, alleati e amici. Ovviamente, lo era pure Temer, che la Rouseff nominò vicepresidente perché abile manovratore.

La lezione è quella di sempre: quando ci si allea con la destra, vince sempre la destra. Forse perché sono anche più bravi ma, soprattutto, perché il senso comune delle cose soffia nella loro direzione.

Ma, come sostiene un proverbio africano, “finché i leoni non avranno i loro storici, i racconti di caccia magnificheranno sempre le gesta dei cacciatori”.

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[i] Sono molti gli articoli che descrivono la debolezza dell’impianto accusatorio. Tra gli altri consiglio di andare a vedere per esempio questo articolo di Foreign Affairs. Recentemente è stato pubblicato anche un appello le cui prime firme sono di Romano Prodi e Massimo D’Alema, che trovate qui.

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