Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (V)

Il reddito di cittadinanza, la rivoluzione digitale, le apocalissi e gli apocalittici (V)

“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” (Lucio Annea Seneca, 62-65)

Assistiamo allo scontro tra due logiche contrapposte.
Quella tra la logica dell’individualismo, del profitto a qualsiasi costo, della concorrenza e della lotta di tutti contro tutti, e la logica della solidarietà, dei beni comuni, del servizio pubblico.
A questo scontro è impossibile non prendere parte.
Bisogna scegliere tra una logica competitiva implacabile – «l’alito gelato della società mercantile», scriveva Benjamin – e l’alito caldo della solidarietà e del bene pubblico

Daniel Bensaïd, “Les Irréductibles”,  2001.

Oltre vent’anni fa, Giorgio Gaber si chiedeva “cos’è la destra, cos’è la sinistra”. Mancando ancora una definizione condivisa, è d’obbligo constatare che l’accettazione acritica del dogma neoliberista da parte di personaggi che, curiosamente, ancora molti continuano a considerare progressisti – Clinton negli Stati Uniti, Blair nel Regno Unito, Schröder in Germania, Hollande e Valls in Francia, Rodríguez Zapatero in Spagna, Renzi in Italia – li ha portati ad adottare in pieno la spiegazione neoliberista della crisi sociale, così attribuendola alle trasformazioni tecnologiche. È avvenuto malgrado lo stesso FMI abbia dovuto riconoscere: “Negli ultimi decenni quasi un quinto della popolazione mondiale, ha regredito. Si può affermare che si tratta di uno dei più grandi fallimenti economici del XX secolo”.

Ma la nuova religione amministrata dagli economisti può ammettere mea colpa, non abiure. Sosteneva negli anni Ottanta l’allora direttore del FMI, Michel Camdessus, rivolgendosi ad una classe di laureati che stavano per diventare impiegati della stessa organizzazione:

Voi siete i preti del capitalismo. Bisogna che persuadiate tutti i Paesi che, se fanno quello che diciamo loro, tutto andrà bene. Dovete credere che la nostra organizzazione abbia una flessibilità incredibile che le permette di adattarsi a sfide nuove grazie ai suoi statuti fondatori […] Abbiate sempre con voi questi statuti del FMI. Rileggeteli spesso. La rivelazione di Dio è contenuta in queste sei ragioni del Fondo così come sono scritte qui […] La nostra responsabilità è fare un mondo migliore[1].

Da buoni fedeli, i nostri sostennero (e probabilmente ci credevano pure) che la risposta da dare si collocava altrove, in una dimensione superiore. Infatti con il “Trattato di Lisbona” (2007) garantirono: poiché i lavori di scarsa formazione sono i più vulnerabili all’inevitabile automatizzazione, per rispondere adeguatamente alla robotizzazione bisogna educare i lavoratori aumentando la loro qualificazione professionale.

Non ho dubbi che educare sia sempre una misura necessaria. Ma, applicata al caso, quest’ipotesi era drammaticamente insufficiente e inadeguata.

Il fatto è che, come disse Marx centotrenta anni fa:

gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure distinguono due tipi di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio[2].

Più diretto, Brecht sentenziò; “Ci sono molti modi per uccidere. Si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, togliergli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra ecc. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato”[3].

Questo vizio millenarista è stato sempre condiviso da tutti i conquistatori, anche quando si proclamano esportatori della crescita, della democrazia, della civiltà, della rivoluzione. Forse non potrebbe essere diversamente. Caso mai il problema è che, sempre per la riproduzione indiscussa del pensiero dominante, questa falsa idea, null’altro che un “mistero della fede”, è stata fatta propria dai conquistati e dominati. Naturalmente non si riduce alla politica o all’economia, come dovrebbero sapere donne, neri, diversi, colonizzati di ogni genere e, forse, anche cani e gatti[4].

La radice profondamente fideistica di questa credenza è superbamente descritta da Milan Kundera:

Subito all’inizio della Genesi è scritto che Dio creò l’uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, i pesci e gli animali. Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo.
Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca, che resta l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose.
Questo diritto ci appare evidente perché in cima alla gerarchia troviamo noi stessi. Ma basterebbe che nel gioco entrasse una terza persona, ad esempio un visitatore da un altro pianeta, il cui Dio gli abbia detto: «Regnerai sulle creature di tutte le altre stelle!», e tutta l’evidenza della Genesi diventerebbe di colpo problematica.
Un uomo attaccato a un carro da un marziano, o magari fatto arrosto da un marziano o da un qualsiasi altro abitante della Via Lattea, si ricorderà forse della cotoletta di vitello che era solito tagliare nel suo piatto e chiederà scusa (in ritardo!) alla mucca[5].

Torniamo a noi. Essendo scomparsa ogni rappresentanza organica di un pensiero di sinistra in grado di contare a livello delle idee e della forza, settori della sinistra, in qualche Paese radicali (Spagna), hanno presentato il Reddito di Base Universale (RBU) come la soluzione per il mondo del lavoro. Altrove (Italia), l’idea è stata scopiazzata senza precisarne i contenuti.

Penso sia del tutto evidente che nulla ho contro tale proposta (ma, per definire eventuali accordi bisogna analizzarne prima i contenuti). Il problema è che per questi settori la proposta è nata dall’assumersi come valida l’ipotesi dei neoliberisti: con la rivoluzione digitale il mercato del lavoro scomparirà a breve, e con ciò scomparirà il finanziamento per lo Stato sociale (che, stante le politiche fiscali regressive imposte dai neoliberisti, senza grandi proteste, si sostiene solo sulle tasse pagate dai lavoratori). Ergo, l’RBU sarebbe il sostituto dello Stato sociale.

Ovviamente, dopo che queste sedicenti sinistre hanno accettato il neoliberismo (sono i “socioliberisti”, una nuova specie mitologica inesistente in natura, più simile a una echidna che a una sirena o un centauro), sbarcate al governo in genere hanno chiuso le loro esperienze crollando precipitosamente. Ma, a scanso di equivoci, anche quando non hanno governato sono riuscite ad alienarsi le loro basi elettorali, fatte prevalentemente da lavoratori che, conoscendo il mito di Teseo e il Minotauro (ma purtroppo non quello di Arianna abbandonata sull’isola di Nasso) hanno smesso velocemente di votarli.

Per i media, ovviamente anche per i socioliberisti, questa disaffezione dimostrerebbe che in Europa e nel mondo c’è meno spazio per la sinistra. Direi che si tratta di un’ipotesi di lavoro strampalata perché mai c’è stato tanto bisogno di una sinistra. Ma, anche questa è una supposizione. Quando ci sarà una sinistra, potremmo verificarla.

Il Reddito di Base Universale, RBU, si rapporta a una dimensione fondamentale, la mancanza di reddito. Copre i bisogni essenziali, e avrebbe il merito – solo a dirlo sembra magia – di mandare in esilio le estreme povertà in un colpo solo. Ma non basta il pane, e una sinistra decente dovrebbe volere anche, e sempre, pure le rose.

Perché solo in Italia basta la parola di un capetto per impedire qualsiasi discussione (“il reddito di cittadinanza è solo fumo negli occhi”, Renzi dixit), in molti Paesi seri gente seria ha portato avanti degli studi approfonditi sul tema.

L’hanno fatto, ad esempio, l’Institute for Global Prosperity (IGP) e l’University College London (UCL) nel 2017. Lo studio, Social prosperity for the future: A proposal for Universal Basic Services, ha calcolato che il costo del RBU (considerando 73,10 sterline per ogni cittadino, ossia l’indennità di disoccupazione, Jobseekers Allowance) sarebbe equivalente al 13% del PIL inglese e al 30% del budget del governo britannico[6].

Quindi, sostiene il rapporto, la misura più urgente (complementare al RBU), consiste nello sviluppo dei Servizi di Base Universali (SBU), includendo sanità, educazione, alloggio, alimentazione, trasporto e informazione, oltre a una serie di diritti democratici e legali (elencati nel testo, includono alcuni diritti politici per le popolazioni straniere residenti, come il diritto a voto e ad essere eletti negli enti locali). Questi diritti vengono definiti essenziali tanto quanto la sanità, l’alloggio e l’alimentazione, necessari per la loro intima articolazione con altri diritti come l’educazione, il trasporto o l’informazione. Il costo pro capite di questi servizi supera di molto quanto loro assegnato dal RBU. Lo studio ne deduce: “Sostituire i servizi basici con il RBU, come suggeriscono diversi settori politici liberali, danneggerebbe fortemente il benessere della popolazione”.

Conclusione: “il RBU è una misura necessaria ma, prima, devono essere garantiti i SBU. Non si deve scegliere tra RBU e SBU, ma si devono includere sia SBU che RBU. Ciò permetterebbe introdurre il RBU gradualmente, come peraltro – al di la dei nomi adottati nei diversi Paesi – è proposto nei diversi Programmi di Reddito Garantito oggi esistenti”.

Torniamo a noi. Penso che le conclusioni dello studio inglese richiedano un supplemento d’indagine. Nondimeno, nel contesto politico oggi esistente in Italia e in Europa penso che limitarsi a chiedere l’immediata applicazione del RBU (nella sua totalità e per tutti i cittadini) significa, al di la delle intenzioni, distrarre le classi popolari da ciò che è veramente urgente: far fronte, e risolvere, l’enorme buco nello Stato sociale provocato dal sottofinanziamento dei trasferimenti pubblici e dei servizi pubblici.

La prima cosa, la più urgente, è che lo Stato, in tutte le sue articolazioni (Stato centrale, Regioni e Comuni), garantisca lo sviluppo dei diritti dei cittadini alla sanità, alla educazione, alla casa, all’alimentazione, al trasporto e alla informazione (riguardo quest’ultima, facilitando la creazione e la gestione degli strumenti che permettono di ricevere e partecipare al processo informativo e comunicativo. Naturalmente, ciò nulla ha a che fare col computer per tutti, che al massimo è un mobilio). Purtroppo, il personale politico di ciò che definiamo sinistra sembra non avere idea del sottosviluppo e della mancanza di finanziamento per questi servizi.

Se prendete la spesa pubblica sociale del vostro Comune o Regione (vale anche per il Paese, ovviamente), e lo dividete per il numero degli abitanti, avrete la spesa sociale pro capite. Se poi guardate le relative tabelline vedrete che la spesa sociale italiana è una delle più basse dell’Unione Europea a quindici (quella che comprende i Paesi a reddito relativamente simile). E per verificare cosa sia successo negli ultimi 10 anni – gli anni della recessione, con governi di centrosinistra, centrodestra e “tecnici” – vi basterà verificare le serie storiche. Vedrete che il sottofinanziamento si è velocemente accentuato, anche di più che negli altri Paesi.

Racconto una piccola esperienza personale. Non penso affatto sia stata un’esperienza unica.

In quanto responsabile della programmazione e del coordinamento delle politiche sociali negli otto Comuni che costituisco l’Alto Tevere Umbro, per anni e anni ho avvertito chi di dovere di questa situazione.

Ad esempio, in un commento sulla «Legge finanziaria 2011» rivolto ai sindaci degli otto Comuni, scrivevo alla fine del 2010:

Con lo slogan «Alt alla miseria», l’UE ha dichiarato il 2010 «Anno della povertà e dell’esclusione sociale». Le ragioni non mancavano, se si considera che alla fine del 2007 nell’UE-27 c’erano almeno 85 milioni di poveri (si definisce povera la persona che dispone di meno del 50% del reddito medio disponibile netto nel proprio paese. In Italia, poco più di 1.000 euro mensili), per cui un europeo ogni sei sopravviveva in mezzo a serie difficoltà (i dati sono presi del rapporto «The Social Situation in the European Union 2007» Eurostat, Bruxelles 2008). Come sappiamo, in seguito allo scoppio della crisi creata dalle finanze e alla conseguente crescita delle disuguaglianze, la situazione si è ulteriormente aggravata.

In Europa la questione sociale è stata posta nuovamente nel centro del dibattito (anche in Italia, malgrado le virtù dell’illusionismo imperante). L’ira popolare si è già manifestata in Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, ecc., moltiplicando gli scioperi e generalizzando il rifiuto verso l’offerta politica realmente esistente, che si manifesta con l’aumento degli astenuti e dei voti in bianco ad ogni consultazione elettorale, oltre che con l’aumento dell’adesione a diversi fanatismi, ovvero con la crescita dell’estrema destra e della xenofobia.

La questione sociale europea si pone oggi in modo particolarmente difficile poiché coincide con la crisi dello Stato del benessere (Welfare State). Grazie al neoliberismo imperante fin dagli Anni ’80 siamo passati dal capitalismo industriale a un’era di capitalismo selvaggio, la cui dinamica profonda è la desocializzazione, ossia la distruzione del contratto sociale, l’abbandono di ogni idea di solidarietà, uguaglianza, redistribuzione dei redditi e giustizia sociale, chiamata da alcuni «modernità».

Molte le trasformazioni indotte dalla globalizzazione tra cui, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, il degrado dello status professionale dei salariati. In un contesto caratterizzato dalla disoccupazione di massa, la precarietà ha infatti smesso di essere un «problema transitorio» per diventare uno status permanente che si è diffuso in tutta Europa, creando forme di «modernità» non troppo dissimili da quelle dominanti in epoca medioevale.

Il degrado dello status del lavoratore salariato aggrava le disuguaglianze, escludendo un numero crescente di persone, soprattutto giovani, dal sistema di protezione dello Stato sociale, la cui principale voce è rappresentato dalle pensioni. Le isola, emargina, spezza, confina in una sorta di giungla dominata dalla feroce concorrenza tra poveri. L’efficacia economica, o il tasso di profitto, è la preoccupazione centrale delle aziende e dei governi, che scaricano sullo Stato ogni obbligo di solidarietà. A sua volta, lo Stato devia questi imperativi verso le ONG o le reti umanitarie private. Così, l’economico e il sociale si allontanano in modo permanente, e il contrasto tra loro diventa sempre più scandaloso. Senza riferirsi ai regali al sistema bancario, bastano un paio di esempi. […] In Italia, in attesa della riforma regressiva del sistema pensionistico che molti preannunciano [poco dopo è arrivata la “Legge Fornero”, condita dal pianto televisivo tanto simile a quello di Homer Simpson mentre si mangia la sua aragosta[7]], il drastico ridimensionamento dei fondi statali per le politiche sociali, deciso con la manovra finanziaria per il 2011, ha segnato l’inizio della fine di importanti politiche socioassistenziali. La «Legge di Stabilità 2011» (ex Legge Finanziaria) ed il «Bilancio di previsione 2011» dello Stato, approvati in via definitiva dal Senato il 9 dicembre 2010 (vedere «Atti Senato, 2464»), rappresenta la più pesante marcia indietro della spesa sociale degli ultimi anni. Ciò malgrado, complici la situazione politica nazionale e le pesanti pressioni dell’Unione Europea e degli organismi internazionali (FMI e BCE), sono state approvate senza grandi discussioni.

L’anno dopo aggiungevo:

Devo chiarire, ma lo vedrete dalle cifre, che la situazione delineata con l’ultima manovra (ottobre 2011) aggrava ulteriormente – e di molto – la situazione allora descritta.

Ciò senza considerare i contenuti della cosiddetta «lettera all’Unione Europea», consegnata dal Governo Berlusconi in data 26 ottobre, di cui conosciamo solo poche notizie filtrate dalla stampa, che se confermate, peggiorerebbero di molto la situazione.

Il passato 26 ottobre 2011, la Regione Umbria ci ha comunicato ufficialmente che l’ultima manovra elimina ogni riferimento a politiche sociali articolate, e si limita a parlare di «attenzione ai bisognosi». Coerentemente, provvede ad eliminare sia il «Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS)», istituito nelle forme attuali (formalmente) dalla «L. 328/2000», sia il «Programma Regionale Integrato per la Non Autosufficienza, PRINA», il quale dispone per il 2012 soltanto di 240 milioni (a livello nazionale), tutti da destinare alla SLA (non dovrebbero bastare nemmeno per questa malattia).

Inoltre, il governo ha comunicato che trasferirà in capo alle Regioni e ai Comuni sia le «Pensioni di accompagnamento» (quelle destinate a chi prende in carico un disabile), sia le «Pensioni d’invalidità». Sarebbe anche logico. Il problema è che disabili e invalidi dovranno essere presi in carico dagli enti locali senza che questi ricevano alcun trasferimento aggiuntivo. […] Questa manovra cancella di fatto la politica sociale nazionale[8].

Va da sé: leggi del lavoro regressive, iniziate dal ministro Treu e dai governi ulivisti, per culminare nel “Jobs Act” di renziana memoria, hanno incrementato le difficoltà dei lavoratori, diminuito i salari ed i tassi di occupazione, e aumentato i tassi di disoccupazione e precarietà.

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[1] Camdessus Michel, citato da Susan Gorge in: Raimón Panikkar, Susan George, Rodrigo Andrea Rivas, “Come sopravvivere allo sviluppo. La globalizzazione sotto inchiesta”, l’Altrapagina Edizioni, Città di Castello 1997.

[2] Karl Marx, “Miseria della filosofia” (1846-1847), Editori Riuniti, Roma 1993.

[3] Ruth Leiser e Franco Fortini (a cura di), “Bertolt Brecht. Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino 1959.

[4] Alcuni testi di riferimento (elenco personale molto meno che sommario): Silvia Federici, “Caliban and the Witch: Women, the Body and Primitive Accumulation” (Calibano e la strega. Donne, corpo ed  accumulazione originale”, Autonomedia, Brooklyn (NY) 2004. Curiosamente, malgrado la Federici sia nata a Parma, non esiste una traduzione italiana di questo libro che, viceversa, è stato tradotto alla maggior parte delle lingue europee; Eduardo Galeano, “Le vene aperte dell’America latina”, Sperling & Kuppfer, Roma 2014 (la prima edizione in spagnolo è del 1968) e “A testa in giù”, Sperling & Kupfer, Roma 2009; Franz Fanon, oltre al già citato “I dannati della terra”, “Pelle nera maschere bianche”, Marco Tropea Editore, Milano 1996 e “Il negro e l’altro”, Il Saggiatore, Milano 1965; Peter Singer, “Liberazione animale”, Il Saggiatore, Milano 2010; George Orwell, “La fattoria degli animali” (1945), Mondadori, Milano 2009. Su un altro terreno, consiglio ascoltare L’internazionale”, ma non certamente quella che canta le lodi del “grande partito noi siamo dei lavoratori”, bensì quella che – con spirito opposto – afferma: “Du passé faisons table rase, Foule esclave, debout ! debout! Le monde va changer de base: Nous ne sommes rien, soyons tout!”, Eugène Pottier, marzo-maggio 1871, la Comune di Parigi.

[5] Milan Kundera, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, Adelphi, Milano 1985.

[6] Social Prosperity Network at the IGP,  Jonathan Portes,  Howard Reed, Andrew Percy, “Social prosperity for the future: A proposal for Universal Basic Services”, Londra 2017.

[7] “Pizzicottina l’aragosta”, Episodio 7, decima stagione dei Simpson, 2008.

[8] Le citazioni sono prese dalle mie comunicazioni ai sindaci e agli assessori alle politiche sociali dei Comuni dell’Alto Tevere Umbro, “Finanziaria 2011: fine delle polite sociali?”, e “Legge di stabilità 2012: i sindaci dovranno prepararsi ad affrontare i disabili ed i loro familiari abbandonati dallo Stato (e forse pure da Dio)”.

Rodrigo Andrea Rivas

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