Brasile. A un anno dal voto
Venerdì 15 ottobre Jair Bolsonaro ha celebrato il fine settimana scorsa i suoi mille giorni di governo – e di campagna presidenziale – inaugurando un ponte di 10 metri di lunghezza per 5 di larghezza ed un’agenzia postale.
Intervistato dalla stampa, ha criticato l’uso delle mascherine perché “non è roba da maschi”, messo in dubbio l’efficacia dei vaccini contro il Covid-19 e proposto l’uso delle vecchie pomate miracolose propagandate dal Trumpo un paio d’anni fa.
Tuttavia, da buon saltimbanchi, ha aggiunto che il Brasile è il terzo paese al mondo per numero di vaccinati. E’ vero: il Brasile è il terzo Paese al mondo per numero di vaccinati.
Ma, se si confronta il numero di vaccinati con la popolazione, occupa il 66° posto.
E’ invece secondo al mondo per i morti da Covid-19. Lo precedono solo gli Stati Uniti.
Anche la miseria e la fame aumentano. Ed a maggiore velocità.
Ci sono molte critiche da fare ai governi del PT, ma non si può dimenticare che la miseria era stata praticamente eliminata alla fine dei 2 mandati di Lula da Silva (2003-2010).
Il fenomeno è reiniziato con il governo di Michel Temer (2016-2018), che usurpò la presidenza in seguito ad un golpe istituzionale e giuridico che rovesciò la presidentessa Dilma Rousseff.
Ma, con Jair Bolsonaro la velocità si è moltiplicata.
Nei primi 3 anni, ancora incompleti, del virus Bolsonaro, almeno 20 milioni di brasiliani sono ritornati nella miseria.
Negli ultimi 6 mesi, tutti i giornali brasiliani raccontano – nelle metropoli e nei villaggi – scene di gruppi di persone alla ricerca di avanzi delle macellerie e dei supermercati.
Poiché business is bussiness, molti esercenti si sono messi a vendere ciò che finora buttavano alla spazzatura.
A metà ottobre, a Rio de Janeiro un chilo di gambe di pollo costava 75 centesimi di euro e un osso da bue, un euro.
Tra giugno 2019 e giugno 2020 si sono duplicati i brasiliani che vivono nelle strade nelle grandi città. A San Paolo, la maggiore metropoli sudamericana, da 90.000 a 250.000. A Rio non ci sono calcoli ufficiali ma si osserva a semplice vista la loro moltiplicazione senza freni.
Migliaia di bambini e adolescenti dormono su coperte distese nei marciapiedi e cercano di vendere qualsiasi cosa ad ogni semaforo.
Salvo miracoli, peggiorerà nell’anno che manca alla fine della presidenza del virus.
Ma, dicono le inchieste, Lula vincerà le prossime elezioni.
Quindi, secondo gli ottimisti il Brasile tornerà presto a far parte dei Paesi progressisti della regione.
Quattro piccole osservazioni mi rendono difficile l’eccesso di ottimismo.
1) Quanti altri brasiliani dovranno lasciarci la pelle in quest’anno? Lo chiedo perché ho sempre trovato sorprendente l’ottimismo sul futuro quando le strade sono piene di gente alla fame.
2) Se Bolsonaro ed i suoi – ivi compresi i militari – sono irrimediabilmente destinati a perdere, chi garantisce che ci saranno elezioni?
3) Gli esperimenti diversi, attuali e futuri, in atto nella zona, potranno sopravvivere ad un Brasile più aggressivo di quanto già non lo sia?
4) E infine, pur se l’egemonia statunitense è in crisi, può considerarsi che Washington sia ormai solo una tigre di carta?
Le risposte le avremo in tempi bravi. Intanto però, non mi pare sconveniente aggiungere all’ottimismo della volontà, la freddezza dell’analisi.
Penso che serva per cercare di risolvere i problemi, prima che le circostanze concrete lo impediscano.
Ovviamente, il discorso non vale solo per il Brasile.