Buon compleanno Manifesto – Mamma li turchi! lo sbarco primigenio dei comunisti

Buon compleanno Manifesto – Mamma li turchi! lo sbarco primigenio dei comunisti

Il 21 febbraio 1848 si pubblicava la prima edizione del “Manifesto del Partito Comunista”, di Karl Marx e Friedrich Engels. La sua critica alla società e il suo programma di azione hanno segnato il XX secolo. Per festeggiare l’anniversario pubblico alcune riflessioni ispirate a quel pensiero, quella che segue è la quarta puntata.

“Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista.
Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia.
Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro.
Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana.
Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice, solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una morale diversa.
Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Sì, qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come, più di sé stesso. Era come due persone in una. 
Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra, il senso di appartenenza a una razza, che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti, avevano aperto le ali, senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora, ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra, il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo.”

Giorgio Gaber[i]

Penso che la concezione comunista del mondo non sia un sistema filosofico e, quindi, che non sia immutabile ma sottoposta a cambiamenti di linguaggio e di pratiche aggiustate alla modifica delle conoscenze e delle società umane di riferimento.

Nella sua concreta totalità, il marxismo è il tentativo di formulare coscientemente le implicazioni, i presupposti e le conseguenze dello sforzo destinato a creare una società ed una cultura comuniste. Quindi, i cambiamenti che riguardano i dati specifici di quello sforzo, di quei presupposti, di quelle implicazioni e delle loro conseguenze pratiche, debbono modificarne presupposti, implicazioni e conseguenze teoriche particolari, e cioè l’orizzonte intellettuale, escludendo ogni fissazione dogmatica.

Per questo, non credo che qualcuno o qualcuna sia nato o nata comunista e penso che sia prioritario separare dal marxismo ogni forma di millenarismo, ogni credenza in base alla quale la rivoluzione sociale equivarrebbe alla pienezza dei tempi, ad un evento risolutivo di tutte le tensioni tra le persone e tra queste e la natura poiché libererebbe le leggi obiettive dell’essere, considerate buone in sé. Questa visione, mi si passi il termine, è una deriva teologica imparentata con la religione, non con il materialismo dialettico.

Marx nulla ha a che fare con questa deriva parareligiosa, ma segnala che la rivoluzione libererà le forze produttive rinchiuse dai rapporti di produzione basati sullo sfruttamento e sulla privatizzazione dell’eccedente. Lo interpreta come un avvenimento positivo mentre oggi sappiamo che in buona misura le forze produttive sono distruttive e la loro totale liberazione implicherebbe la rovina ecologica del pianeta.

Nel 2021 abbiamo una certezza che nel 1848 poteva al massimo essere un’ipotesi di lavoro: prima di una rivoluzione sociale profonda (e quindi sociale), può arrivare il disastro fisico.

La garanzia che ciò non avvenga non è mai esistita, ma oggi sappiamo che non è affatto certo, neppure a livello psicologico, che il processo di trasformazione sociale sia destinato ad anticipare il processo socio-fisico di distruzione del nostro contesto vitale.

Sappiamo cioè, che il nodo gordiano che Rosa Luxemburg tradusse nello slogan “socialismo o barbarie”, ossia rivoluzione o catastrofe socio-fisica, può anche essere risolto con il sorpasso del disastro che impedirebbe la trasformazione sociale necessaria per evitarlo.

Senza pessimismi, conviene annotare che in questa corsa a chi arriva prima all’appuntamento con la storia, la catastrofe socio-fisica, e cioè la barbarie, mi appare avvantaggiata.

Non è affatto chiaro che oggi possediamo un’alternativa qualsiasi. Tuttavia, essendo animali ogni tanto razionali, siamo costretti ad inventarci qualcosa, ad agire come se credessimo che un altra politica della scienza ed un altro mondo siano possibili, anche perché sappiamo che se tutto continua ad essere così com’è, a diventare impossibile sarà “il mondo”.

In questo senso non è una provocazione, nel 2021, chiedersi se, da un punto di vista strategico, ha avuto maggiore successo rivoluzionario la III Internazionale oppure Gandhi.

E’ vero che Gandhi non ha costruito la sua India artigianale e frugale, ma nemmeno la III Internazionale ha costruito un mondo socialista.

Penso che la lezione di Gandhi dovrebbe servire per potenziare politicamente i movimenti alternativi, i piccoli nuclei marginali o meno, che esistono, costruendo ponti tra questi ed il movimento dei lavoratori che continuo a ritenere il protagonista essenziale.

E cioè, penso che il corollario dovrebbe essere quello ghandiano: bisogna avere il telaio in casa.

Tradotto in termini odierni penso significhi, ad esempio, smettere di inquinare mentre si parla intensamente contro l’inquinamento; non chiudere il pensiero od i temi ma aprirli, cercando di aggiungere ad ogni osservazione un’altra apertura, sentirsi pensante mentre si pensa ma cercare di pensare assieme agli altri, socraticamente; non sostituire la coppia “vero/falso” con “valido/non valido”, “coerente/incoerente”, “consistente/inconsistente”, “utile/inutile”. “Vero” e “falso” appartengono alla lingua corrente, alla tradizione scientifica, alle ovvietà. “Valido/Non valido” è una coppia buona per intellettuali da non prendere troppo sul serio.

Ritorniamo a bomba sul nostro “Manifesto”. Nemmeno in questo caso tento un’analisi esauriente dell’opera ma semplicemente ricordarne le basi e le problematiche ulteriormente definite dal tempo trascorso. Penso serva anche per evitare di parlarne a vanvera

Fin dalla frase iniziale Marx ed Engels giocano a carte scoperte: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi […] È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, le loro finalità, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso”. La frase finale identifica i protagonisti convocati: “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”

Checché se ne pensi, era un canto alla uguaglianza e alla giustizia sociale.

Il testo, scritto e pubblicato in tedesco, era stato incaricato agli autori dalla Lega dei Giusti (Bund der Gerechten), organizzazione operaia clandestina tedesca nata nel 1836 a Parigi che comprendeva lavoratori di diversi paesi europei e sezioni organizzate in Germania, Francia, Svizzera, Regno Unito e Svezia. La Lega dei giusti diventerà Lega dei comunisti nel 1847.

Inizialmente la diffusione del Manifesto si limitò ai gruppi rivoluzionari tedeschi ma dalla seconda metà del XIX secolo è stato tradotto in quasi tutte le lingue europee e ha raggiunto una grande popolarità, sia nel movimento operaio europeo, sia in quello delle colonie dove questi operai erano presenti.

Il “Manifesto del Partito Comunista” è diviso in un preambolo e quattro capitoli: “I. Borghesi e proletari”, “II. Proletari e comunisti”, “III. Letteratura socialista e comunista”, “IV. Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione”.

In un Paese arretrato e pauroso com’è oggi l’Italia, qualcuno dirà che si tratta di un discorso preistorico o limitato agli “studiosi”. Nulla di più falso.

Anzitutto, poiché il “Manifesto” è il secondo libro più venduto al mondo (dopo la Bibbia).

Poi, perché si può tranquillamente affermare che Marx ed Engels siano stati gli scrittori politici più influenti della storia.

Perché tanta paura?. Forse, anche, poiché le classi dirigenti del Paese dove tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale, si sentono maltrattate dall’inizio folgorante de “Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte” (1852): “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”[ii].

A chi quest’affermazione suonasse artefatta o esagerata, consiglio di guardare i TG.

Nel XIX secolo le nuove modalità di produzione, di comunicazione e di distribuzione avevano creato una enorme ricchezza, ma il 10% della popolazione possedeva praticamente tutto e l’altro 90% nulla. Man mano città e Paesi s’industrializzavano, la ricchezza si contraeva ulteriormente ed i ceti medi s’impoverivano fino a lambire il livello socioeconomico dei lavoratori manuali (ricorda qualcosa?).

Ma, diversamente da oggi, la crescita delle disuguaglianze era accompagnata dalla scomparsa delle ideologie che l’avevano resa naturale ed i delinquenti erano coloro che commettevano reati, non chi li denunciava. Quindi, diventava inevitabile che i lavoratori ne osservassero le vere caratteristiche e progettassero di rovesciare il regime che la sostentava.

Marx aveva previsto questo sbocco. Le rivoluzioni ebbero effettivamente luogo, ma non nelle forme né nei luoghi che lui aveva predetto: “La realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va”, canterà Gaber negli Anni ’70 del XX secolo[iii].

Tra i suoi apporti fondamentali, il materialismo storico concentra l’attenzione sulla produzione materiale e sulle leggi economiche della società. Per Marx, il cui modello sociopolitico si distingueva dalle altre proposte socialiste del XIX secolo perché teoricamente basato su premesse scientifiche, la società si evolve in base all’incremento delle sue produzioni materiali. La lotta di classe che contraddistingue il materialismo storico avrebbe generato le trasformazioni delle società umane.

Come i “socialisti utopici”, anche Marx ed Engels partivano da una critica all’ordine capitalista ma, diversamente da questi, ne analizzavano il funzionamento per concludere che le sue stesse leggi l’avrebbero portato alla distruzione.

In questo senso, il “Manifesto” era molto più di una proclama politica. Conteneva una teoria della storia, della meccanica economica e delle classi sociali, a partire dalle quali profetizzava l’ineluttabilità della rivoluzione proletaria.

Era una logica materialista che proclamava che le società non si trasformano in base alle idee ma per le contraddizioni tra i sistemi e gli interessi di classe.

Logica materialista che era anche un’utopia volontaristica: dell’uguaglianza, della proprietà collettiva dei mezzi di produzione, del lavoro di tutti in beneficio di tutti.

“La storia di ogni società fino ai giorni nostri è la storia della lotta di classi (…), dai patrizi e plebei dell’antica Roma ai servi e signori nel feudalesimo e fino ai borghesi e proletari del capitalismo (…) Il borghese è proprietario dei mezzi di produzione ma sono i proletari – i non proprietari – a generare il valore delle merci con quei mezzi (…) La borghesia è una classe dinamica che ha avuto un ruolo storico rivoluzionario: rovesciare il potere feudale (…) La sua prosperità deriva dalla crescita dell’industria e del commercio, potenziati dall’apertura di nuovi mercati in seguito alla scoperta dell’America e all’apertura dei mercati dell’Asia”.

Il programma proposto dal “Manifesto” si articolava in 10 punti che, all’epoca della sua stesura, avevano il valore di un programma rivoluzionario per i Paesi più industrializzati. Tramite queste dieci misure si sarebbe attuato quella che in seguito sarebbe stato denominata la dittatura del proletariato.

I dieci punti erano:

1.- Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.
2.- Forte progressività delle Imposta.

3.- Abolizione del diritto di successione.

4.- Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato tramite una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni in base ad un piano collettivo.

8.- Obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specie per l’agricoltura.

9.- Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo fra città e campagna.

10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nelle loro forme attuali. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale.

Nel prologo dell’edizione tedesca del 1872, Marx ed Engels annotavano: “L’applicazione di questi principi dipenderà dalle condizioni esistenti”. Poi ammettevano: “Se dovessimo formularlo oggi (1872), questo passaggio avrebbe un altro carattere riguardo molti aspetti”. Infine, sfumavano: il proletariato in lotta contro la borghesia è costretto alla conquista del potere politico, ma “dopo la scomparsa delle differenze di classe e quando tutta la produzione sarà concentrata in mano alla società”, l’egemonia politica di classe da parte del proletariato diventerà inutile “e la vecchia società borghese sarà sostituita da un’associazione in cui il libero sviluppo di ognuno sarà condizione del libero sviluppo di tutti”.

In termini pratici, il “Manifesto” era un programma per l’organizzazione mondiale del proletariato. Quindi, è stato costantemente aggiornato in base alle lezioni tratte dalle esperienze storiche dei lavoratori. Dopo la morte di Marx, Engels ha continuato l’opera completando l’edizione de “Il capitale” e controllando e correggendo ogni articolo pubblicato.

Karl Marx e Friedrich Engels non hanno potuto verificare le loro predizioni sulla fine del capitalismo ma, come già osservato, il marxismo ha inciso profondamente nella storia successiva.

Oltre ogni critica a posteriori, Marx ed Engels intrapresero la costruzione di una ideologia antiegemonica quale base dello smantellamento dell’ideologia borghese tra la classe lavoratrice. Il “Manifesto” è, quindi, uno sforzo cosciente per dare forma all’ideologia della nuova e crescente classe lavoratrice ed uno sprone alla sua organizzazione.

Oltre ogni critica a posteriori, resta che la lotta contro gli imperialismi ed il potere capitalistico continua ad essere la chiave per raggiungere il benessere, la fratellanza, l’uguaglianza e la libertà.

Dopo tanti anni dopo va ripetuta, con toni sempre più urgenti, la sua proclama finale:

“Lavoratori e lavoratrici del mondo, unitevi!”

E da molte parti, ai comunisti conviene tenere sempre presente l’avvertimento di Tony Montana:“Io un comunista lo ammazzo pure gratis, ma per la carta verde di residenza, sarei anche disposto a sotterrarlo.”[iv]


[i] Giorgio Gaber, “Qualcuno Era Comunista”, nell’album “E pensare che c’era il pensiero”, 1996.

[ii] Karl Marx, “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte”, Editori Riuniti, Roma 1974.

[iii] Giorgio Gaber, “La Realtà è Un Uccello”, nell’album “Anche per oggi non si vola”, 1974-1975.

[iv] Al Pacino in “Scarface”, film del 1983 diretto da Brian de Palma. “Scarface”, lo sfregiato, era il sopranome di Al Capone.

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