Buon compleanno Manifesto. La memoria

Buon compleanno Manifesto. La memoria

Il 21 febbraio 1848 si pubblicava la prima edizione del “Manifesto del Partito Comunista”, di Karl Marx e Friedrich Engels. La sua critica alla società e il suo programma di azione hanno segnato il XX secolo. Per festeggiare l’anniversario pubblico alcune riflessioni ispirate a quel pensiero.

Parte 2 – La memoria

“La memoria apunta hasta matar
a los pueblos que la callan
y no la dejan volar
libre como el viento”.

León Gieco[1]

Memoria, è un termine che implica molto più di una categoria filosofica utile a pensare il rapporto tra storia e oblio. Nei luoghi fisici dove costruire il futuro la memoria continua ad essere un’idea che possiede un senso. La memoria continua a non essere un concetto innocente, perché contiene una storia tanto “presente” nella vita quotidiana da non poter eluderla.

Ognuno è prigioniero della propria memoria. Per me, il primo esempio di una storia che non può essere elusa è quello dei desaparecidos.

Lo preciso perché penso che ogni punto di vista sia la vista o visione da un punto specifico. Dichiarando qual è il proprio punto di partenza e d’analisi, si scarta ogni pretesa di universalità. E vedo ogni pretesa di universalità come una pretesa che si confà alla religione, non all’analisi.

La politica, secondo i testi di scienza politica, è un’arte (o un disastro), non una scienza esatta. La quantità di variabili e imponderabili di questa prassi umana la espone sempre all’errore, alla necessità di rettificare la marcia. Può, persino, portarci laddove non volevamo finire. Centrandosi sul potere, possiede un lato oscuro che finisce sempre per colpirci in qualche modo, anche in forma non direttamente politica. Accade, ad esempio, con gli indemoniati di Dostoevskij, le mani sporche di Sartre od i giusti di Camus[2]. E accade oggi, ad esempio, in Paesi come Italia.

Penso si debba sempre cercare di partire dal punto di vista della sinistra ontologica, una sinistra che fa proprio ogni progetto di emancipazione dell’umanità avendo quale principio d’ordine l’idea di uguaglianza.

Solo così, penso, si può provare a costruire un pensiero sostantivo, con contenuto proprio non risolvibile in altri saperi, evitando il “pensiero aggettivo” o di secondo grado, sprovvisto di tematica propria, che poggia su pensieri altrui ed enuncia “verità” irrefutabili e inverificabili.

Normalmente tutti produciamo pensiero aggettivo. Cercare di costruirne uno sostantivo non equivale a riuscirci.

Poco più di vent’anni fa, in seguito al crollo del muro di Berlino e alla chiusura di ciò che Eric Hobsbawm chiama “il secolo breve”[3] e Francis Fukuyama definisce come “la vittoria definitiva del capitalismo[4], in questa parte del mondo le esperienze che fino ad allora costituivano un presente vissuto diventarono un passato imperfetto.

Dopo il 1989, in Europa non c’è stato alcun progetto di futuro capace di organizzare in modo intelligibile e superabile quanto era avvenuto. Ci si è limitati ad uno sforzo interpretativo caratterizzato da una diffusa malinconia che si ferma all’analisi delle ragioni dell’insuccesso e, conseguentemente, è incapace di costruire una militanza politica presente.

Detto altrimenti, dopo il 1989 la dialettica si è ridotta ad uno stanco andare e venire tra il passato prossimo e la memoria del presente, a un vano, a volte vanitoso, sforzo ermeneutico che prescindeva, e prescinde a priori, della undicesima tesi di Marx su Feuerbach: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in vari modi; il punto è cambiarlo”. E, come Marx aveva anticipato nella tesi IX, “l’altezza massima a cui può arrivare il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non concepisce il mondo sensibile come attività pratica, è l’intuizione dei singoli individui nella «società borghese»”[5].

Marx non intendeva affatto dire che la filosofia fosse irrilevante, ma che i problemi filosofici sorgono dalle condizioni della vita reale e possono risolversi solo cambiando quelle condizioni. Ciò pone il problema dell’unità teoria e pratica o, per dirlo con la leggerezza di un poeta cinese di epoca Tang (618-907), significa che “nessuno può bere acqua da un miraggio”[6].

Da quando la sua idea di trasformazione del mondo è stata sconfitta, la sinistra europea si dedica ad interpretare ciò che è stato, dividendosi tra i cultori della riaffermazione del senso di appartenenza (non si sa esattamente a cosa) e spericolati amanti di piroette logiche accomunate dall’indiscusso senso sempre più a destra.

In entrambi i casi, non è una sinistra-soggetto ma una sinistra-interprete.

Come accadde sempre nei momenti bui della storia, la speranza appartiene anzitutto agli artisti e non a caso, in questi anni bui la più evidente forma di opposizione è stata quella dei comici, della musica e del buon cinema non didascalico. Penso, ad esempio, a “Queimada” di Gillo Pontecorvo, dove la sinistra ontologica impersonata da José Dolores, il tagliatore di canna che, pur avendo tutto da perdere, si ribella contro lo schiavismo europeo rappresentato dal cinico e simpatico Walker/Marlon Brando. Ho sempre associato José Dolores ad un testo dotato di linfa e respiro, “I dannati della terra”, di Franz Fanon, un discendente di schiavi africani, servi tamil e bianchi, che trovò nella sua natia Martinica e nella sua terra di elezione, l’Algeria, le basi per un progetto di decolonizzazione integrale[7].

Parafrasando il concetto di storia di Walter Benjamin[8], penso che in quanto “istante di pericolo” il presente possa servirci per recuperare proficuamente il passato rispettando nel contempo l’impegno di redenzione.

Intendo dire che i morti non sono morti invano, e che l’urgenza di conservare la memoria del passato contro ogni sradicamento significa formulare “una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui i politici continuano ad attenersi” (Tesi X).

Intendo che ciò implica combattere la fantasmagoria del progresso, interminabile e incessante, di una storia intesa come un continuum trainato dallo sviluppo tecnico che costituisce uno strumento privilegiato della classe dominante per annullare il passato: “La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto” (Tesi XIII).

Penso significhi non dimenticare che l’ideologia dei dominatori si lascia “scorrere fra le dita la successione dei fatti come un rosario” (Tesi XVIII) e che, per imporsi, deve liquefare retroattivamente la storia poiché “nemmeno i morti saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere” (Tesi VI).

Infine, “chiunque ha riportato fino ad oggi la vittoria partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, è trascinata nel trionfo. Essa è designata con l’espressione «patrimonio culturale»” (Tesi VII).

Penso che si possa trovare un’alternativa alla malinconia della sinistra europea visitando quei territori dove la parola “memoria” riguarda la politica quotidiana. Perciò, non per un “terzomondismo” da reduce del partito preso, mi occupo spesso di ex colonie.

Il ricorso alla figura non retorica dei desaparecidos mi permette di affermare che memoria non è solo sinonimo di malinconia ma può esserlo anche di mobilitazione, di organizzazione e di apertura critica. Che gli spazi della memoria non concludono la discussione ma continuano a rappresentare uno scandalo; che sono un’affermazione della diversità e una spinta ad auto-situarsi.

La memoria è una pedestre capacità degli umani richiamata a volte da “storie subalterne” e fuori contesto.

Ricordo, ad esempio, che negli Anni ’80 mi capitò di recarmi, a Bogotà, in una struttura in cui vivevano alcune migliaia di bambini, tra i 5 ed i 18 anni, recuperati dalla strada da un prete italiano, Saverio.

Della “Città dei bambini” ricordo, tra molte altre cose, che il loro sindaco, un ragazzino quindicenne eletto con migliaia di voti dalla comunità, mi raccontò che loro partecipavano sempre alle manifestazioni di protesta in città. “Abbiamo memoria di ciò che siamo stati e abbiamo un’idea di ciò che siamo. Perciò sappiamo che protestare è sempre giusto”[9].

E con ciò mi risolse alcune paturnie e molti settarismi.

Questo viaggio prosegue domani,
con una riflessione dedicata i diritti umani e alle strade che hanno aperto


[1] La memoria punta fino ad uccidere i popoli che la silenziano e non la lasciano volare libera come il vento. León Gieco, “La memoria”, 2013.

[2] Бесы” (Besy), (I diavoli, 1873), di Fëdor Dostoevskij, racconta la storia di un gruppo di ragazzi che hanno perso ogni spinta ideale; “Les mains sales” (Le mani sporche, 1948) di Jean Paul Sartre, la storia dell’assassinato di Lev Trockij; “Les giustes” (I giusti, 1949), di Albert Camus, la storia di un uomo consapevole dei propri errori e dei propri limiti ma totalmente incapace di opporsi a questa sua inutilità. 

[3] Eric Hobsbawm, “The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914–1991”,  Time Warner Books,  Londra 2002. Tr. it. “Il Secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”, Rizzoli, Milano 1995.

[4] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man”, Free Press, New York 1992. Tr. it. “La fine della storia e l’ultimo uomo”, Milano, Rizzoli, 1992.

[5] “Thesen über Feuerbach” (Tesi su Feuerbach, 1845), breve scritto di Karl Marx riproposto da Friedrich Engels dopo la morte dell’autore. https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm

[6] Shan Han, “Montagna Fredda”, Tararà edizioni, Verbania 2013.

[7] Franz Fanon, Les Damnés de la terre”, Maspero, Parigi 1961. Tr. it. “I dannati della terra”, Einaudi, Torino 2000. https://laboratorioodradek.files.wordpress.com/2013/05/fanon-i-dannati-della-terra.pdf

[8]  Walter Benjamin, “Über den Begriff der Geschichte”, 1940. Pubblicato postumo nel 1950, Suhrkamp, Francoforte a.M. Traduzione italiana “Sul concetto di storia”, Einaudi, Torino 1997.

[9] R. A. Rivas, “La città dei bambini”, “The Practitioner”, edizione italiana, Milano gennaio 1990.

Rodrigo Andrea Rivas

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