I tempi della politica e la vita, tutta, sempre
(lapresse)
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Siamo così abituati o rassegnati a perdere che abbiamo finito usando la Storia come campo metafisico di una lotta senza fine la cui stessa continuità finisce trasformandosi “nella vittoria”.
Trovo urticante la tendenza a consolarci da una sconfitta ricorrendo alla idea, banale e inesatta, che “la Storia non finisce mai”.
Se Trump e Bolsonaro vincono le elezioni, se la cultura patriarcale si rimette orgogliosamente in piedi, se le “primavere arabi” sono sconfitte, se il Venezuela è assediato…, la nostra via di fuga per esprimere la necessità di continuare la lotta nella nostra epoca è la Storia.
Per riuscire in questo tentativo facciamo ricorso a due analgesici, comodi, ma assai poco favorevoli all’intervento politico concreto.
Il primo è inseparabile da una illusione: abbiamo sempre tempo a disposizione per rovesciare o per correggere le sconfitte.
Non è vero, o quantomeno, tende a non essere più vero. Anzitutto poiché ogni giorno sembra più aderente alla realtà un’affermazione di Levi-Strauss: “Il mondo è iniziato senza la razza umana e certamente non finirà con essa”[1].
Provo ad aggiornare quest’affermazione non senza verificare che è diventata talmente comune che la raccolgono persino politici generalmente lontani da queste preoccupazioni: Mai la stessa sopravvivenza del mondo è stata così in pericolo come oggi[2].
Il tempo della Storia non è infinito perché non è omogeneo. Perché avvengono sempre fatti che introducono effetti irreversibili o reversibili solo nei tempi lunghi.
Tra quelli irreversibili si contano i fatti ecologici, che limitano di molto il “tempo storico” a nostra disposizione per rovesciare ciò che è reversibile.
Non possiamo – penso per fortuna – sapere di quanto tempo disponiamo ancora, ma per la prima volta questa domanda (quanto tempo abbiamo ancora?) diventa necessaria e urgente.
La domanda sul tempo è anche una domanda politica, poiché davanti ad una sconfitta storica non disponiamo più di un tempo illimitato (o limitato soltanto dall’estinzione del sole tra 6 miliardi di anni). Quindi, la tragedia non consiste solo nell’entità della stessa – ovvero dal conteggio dei morti e dei sinistrati – ma anche da una nuova coscienza tragica: la Storia accorcia i suoi stessi tempi ad ogni nostra sconfitta. Nel Terzo millennio questa, non una semplice iattura locale, mi sembra il senso dell’ammonimento di Rosa Luxemburg: “o socialismo o barbarie”.
Trump e Bolsonaro, ad esempio, sono certamente pericolosi per la democrazia. Ma lo sono anche per la vita umana sulla Terra, poiché la loro politica riguardo l’ambiente limita il tempo di cui disponiamo per ristabilire la democrazia.
Il secondo analgesico si collega al soggetto della lotta. Forse la Storia non finirà mai, o comunque non finirà presto, ma la vita individuale finirà.
L’illusione di eternità ed omogeneità della battaglia, diventata il vero fine della Storia, ci può quindi consolare solo al costo di un doppio e paradossale sacrificio.
Il primo è il sacrificio delle vittime sinistrate dall’insuccesso politico, ad esempio delle vittime delle misure di Trump o di Bolsonaro, dirette ed indirette.
Il secondo è il sacrificio della generazione presente condannata a non vedere la futura vittoria.
Ma, se il senso del mondo è che il lavoro delle generazioni passate serva solo alle generazioni seguenti, e questo avviene ad infinitum essendo irrimediabilmente inutile alle loro stesse vite, più che di un senso bisognerebbe parlare di un controsenso.
Vista da questa prospettiva, la Storia non sarebbe altro che un infinito rosario sacrificale fatto da eroi, da martiri e da militanti (militonti, direbbero i latinoamericani, noti cinici).
Se, viceversa, partiamo da una considerazione del tutto ovvia, la vita è breve, e non possiamo non accorgerci che la Storia è finita ed ha le rughe, diventa imprescindibile sapere quando stiamo vincendo e quando stiamo perdendo.
Se constatiamo che stiamo perdendo, non ci si può consolare attingendo al presunto senso progressista della Storia. Si deve, invece, definire interventi piccoli e concreti capaci di conciliare la difesa immediata dei sinistrati – entro le loro brevi vite – alla protezione intergenerazionale di un Tempo Umano sempre più limitato e minacciato.
Canta Rubén Blades: “Hay un tiempo pa´ reir, y otro tiempo pa´ llorar. Un tiempo para partir, y otro para regresar. Hay un tiempo pa´ vivir, y otro para terminar, hay un tiempo pa´ morir y otro para comenzar”[3].
Togliendo il ritmo alla salsa e fermo restando che il diritto ad interpretare un testo è un diritto umano, penso che Blades ci dice che bisogna vivere e lottare come se non ci fosse un domani. Concordo in pieno.
Diciamola con Eduardo Galeano: “Pur se non possiamo indovinare il tempo che verrà, abbiamo il diritto almeno d’immaginare quello che vogliamo che sia… Vi propongo d’iniziare ad esercitare il mai proclamato diritto a sognare. Che vi pare se deliriamo per qualche attimo? Inchiodando gli occhi oltre l’ infamia per indovinare un altro mondo possibile”. Galeano conclude l’esercitazione del diritto al delirio affermando: “La perfezione continuerà ad essere il noioso privilegio degli dei, però in questo mondo semplice e fottuto, ogni notte sarà vissuta come se fosse la prima e ogni giorno come se fosse l’ultimo”[4].
R.A. Rivas
14 marzo 2019
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[1] “Tristes tropiques”, Plon, Parigi 1955. Tr. it. “Tristi tropici”, Il Saggiatore, Milano 1960-2018.
[2] “Sergio Mattarella: “Siamo sull’orlo di una crisi climatica globale”, “Corriere della Sera”, Milano 13 marzo 2019 https://www.corriere.it/cronache/19_marzo_12/sergio-mattarella-siamo-sull-orlo-una-crisi-climatica-globale-43f11d94-44c1-11e9-b3b0-2162e8762643.shtml
[3] “C’è un tempo per ridere, e un altro tempo per piangere. Un tempo per partire, e un altro per ritornare. C’è un tempo per vivere, e un altro per finire, c’è un tempo per morire ed un altro per cominciare”. “Tiempos”, dell’album omonimo, 1998.
[4] Eduardo Galeano, “El derecho al delirio”, blogspot.com/2013/04/eduardo-galeano-il-diritto-al-delirio.html