Lettera a Monsignor Romero
Per le strade di Panchimalco, San Salvador, El Salvador. “Anche se la pallottola assassina mi uccidesse, resusciterei nel mio popolo”. (AP Photo/Salvador Melendez)
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Il 14 ottobre 2018, Oscar Arnulfo Romero è stato canonizzato alle 10,30 del mattino da Papa Francesco, in Vaticano.
Presumo per cerchiobottismo verso i benpensanti, insieme a lui sono stati canonizzati altri 6 nuovi santi.
La RAI e le sue sorelle, non potendo fare a meno di raccontare l’evento, hanno creato automaticamente l’accoppiata Romero-Montini (Paolo VI) che, a sentir loro, sarebbero accomunati dalle sofferenze. E RAI News è arrivata a sostenere che Romero era stato ucciso dai narcos!
Ufficialmente, Romero è diventato santo perché ad anni di distanza avrebbe guarito un contadino. Come fece Wojtyla con una suora guarita dal cancro e Paolo VI con una mamma che aveva problemi per portare a termine una gravidanza.
Non tocca a me discutere i criteri di una canonizzazione, che reputo compito esclusivo dei credenti preposti, e sono comunque felice che Romero abbia avuto tale riconoscimento.
Nondimeno, segnalo che Romero era ed è santo per la sua gente, fin dallo stesso 24 marzo 1980 in cui fu assassinato dagli squadroni della morte della destra salvadoregna (come hanno riconosciuto tutti, salvo la RAI).
Non lo è diventato per i suoi veri o presunti miracoli, ma perché ha condiviso fino in fondo la fortuna, o meglio detto la sfortuna, della sua gente, garantendole riflessione, elaborazione teorica, direzione, compassione nel senso più alto, compagnia.
Enrique e Carlos Mejía Godoy, i maggiori cantanti dell’epopea sandinista (oggi conseguentemente all’opposizione di Daniel Ortega) cantano infatti “Con Farabundo e Romero”. Penso tutti lo sappiano, ma a scanso di equivoci ricordo che il riferimento è a Farabundo Martí, luogotente di Augusto Cesar Sandino e fondatore di ciò che poi diventerà il Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale, FMLN.
Conclusione: non so se Romero sia stato un santo. Non ho le conoscenze per affermarlo.
So, però, che la sua gente lo considerava tale, e tanto mi basta.
Nel 2005, per il 25 anniversario del suo assassinato scrissi un pezzo che, per omaggiarlo, riproduco a continuazione.
Lettera a Monsignor Oscar Romero in occasione del 25° anniversario del suo assassinio[1]
“Fu quando gli zingari arrivarono al mare che la gente li vide,
che la gente li vide come si presentano loro,
loro, loro gli zingari,
come un gruppo cencioso, così disuguale
e negli occhi, negli occhi impossibile,
impossibile poterli guardare.
Enzo Jannacci, “Gli zingari”, (1968)
Caro Monsignore, sono passati 25 anni dal tuo assassinio e tredici dalla firma degli accordi di pace che hanno messo fine alla guerra civile nel tuo paese.
Le cose continuano ad andare male, a volte molto male, dovunque.
Siamo tutti immersi in un processo denominato “Globalizzazione Spa”. Formalmente siamo tutti proprietari della compagnia che realizza l’opera. In pratica, la caratteristica fondante è lo scarso numero di fruitori. “Siamo tutti sulla stessa barca”, ma solo alcuni remano mentre altri si annoiano prendendo il sole.
C’è tanta gente stufa dell’ingiustizia, della corruzione, della mancanza di senso, delle bugie.
I poveri sono sempre tanti, anzi, si moltiplicano. Spesso muoiono, per catastrofi naturali e per quelle provocate, per ponti e strade che crollano o per guerre combattute con i più svariati pretesti ma sempre, crollo dei ponti e delle strade nonché guerre, solo per i “dané”.
Ad altri va peggio: muoiono bruciati vivi su qualche panchina o mentre dormono in una roulotte. Ad appiccicare il rogo sono spesso dei ragazzetti annoiati …
Quelli delle tue parti, come sempre costretti all’emigrazione, come in molti altri paesi dell’area, sono ormai la prima fonte di entrate dello Stato. Sono coloro di sempre, così come li descrive Roque Dalton in “Poema de amor”: “Quelli che ampliarono il Canale di Panama, ripararono la flotta del Pacifico nelle basi della California, marcirono nelle carceri del Guatemala, del Messico, dell’Honduras, del Nicaragua, perche ladri, contrabbandieri, truffatori, affamati”, i tristi più tristi del mondo, i miei compatrioti, i miei fratelli”[2].
Da queste parti alcuni autorizzati a parlare dal fazzoletto verde nel taschino sostengono che vivano da nababbi. Invece, come tu e chiunque abbia collegato il cervello alla bocca sa, sono stanchi dal dover emigrare, dall’essere maltrattati, discriminati, derisi, mal pagati. Non ne possono più di rappresentare la maggior parte della popolazione carceraria e la maggioranza di coloro che si ammazzano cadendo da impalcature mal protette, eccetera.
Non c’è soluzione, Monsignore?
Avrei voluto raccontarti come vanno le cose perché tu ci aiutassi a trovare delle strade. Ma sarebbe troppo lungo. Allora ho pensato di scriverti semplicemente per ricaricare le batterie.
Una predica sconvolgente
Anni fa, tu non c’eri già più, non appena arrivato a San Salvador andai a visitare la tua cattedrale. Era una domenica mattina e la messa era tenuta da Monsignor Rivera y Damas. All’inizio c’era poca gente e tanti giornalisti, soprattutto stranieri. Poi, alla spicciolata, la chiesa si riempì di contadini, uomini e donne, tutti coi vestitini bianchi del giorno di festa.
Era un giorno di marzo, come la sera di quel 24 quando El Salvador agonizzò con te.
E sono stato testimone di uno tra i maggiori avvenimenti politici della mia vita. Sul pulpito, l’ufficiante ti citava, la Tv e la radio mandavano tutto in diretta, la città si era paralizzata per ascoltare: “Fratelli: volete sapere se siete autenticamente cristiani? Con chi vi trovate? Chi vi critica? Chi vi chiude le porte? Chi vi fa entrare in casa?”
“Non ci interessa quanti siete ora in chiesa, non ci interessa la bellezza materiale dei nostri templi. Ci interessate voi, le persone”.
“Non ci interessa una massa di gente addormentata, ma vogliamo risvegliare nelle persone il senso della comunità”.
“La religione non consiste solo nel pregare tanto. Consiste in quella garanzia dell’avere il mio Dio vicino, perché faccio il bene dei miei fratelli. La garanzia delle mie orazioni è facile da conoscere: come mi comporto col povero? Perché lì c’è Dio”.
“La chiesa non può essere sorda né muta davanti all’urlo di milioni di uomini che gridano liberazione, oppressi da mille schiavitù”.
“Sento pena per quei tanti scribacchini venduti, per le tante lingue che attraverso la radio si alimentano della stessa calunnia che producono. Spesso la verità non produce denaro bensì amarezza. Ma è meglio essere liberi nella verità che ricchi di denaro nella bugia”.
“Un uomo, un popolo per il quale la tenerezza di Dio è scomparsa, un luogo dov’è meglio che non ci sia Dio per poter commettere ingiustizie, per commettere il peccato che Dio punisce, è ispirato direttamente da un ateismo pratico. Perciò, non solo il marxismo è ateo, ma anche il capitalismo è ateo. Trasforma il denaro in Dio, idolatra il potere, crea in continuazione dei falsi dei per soppiantare il Dio vero. Viviamo tristi in una triste società atea”.
“Prima di essere cristiani, bisogna essere molto umani… Dio non disprezza i fatti concreti. Voler predicare senza riferirsi alla storia del luogo in cui si predica, non è predicare il Vangelo. Molti vorrebbero una predicazione così spirituale da lasciare soddisfati i peccatori, una predicazione che non dica nulla agli idolatri inginocchiati al cospetto del denaro e del potere… In tempi conflittuali come i nostri, avanzano gli adulatori, i falsi profeti, quelli che si sono venduti preventivamente la matita e la parola. Ma quella non è la verità”.
“I cristiani non hanno paura di combattere. Sanno combattere, ma scelgono il linguaggio della pace. Tuttavia, quando una dittatura attenta gravemente contro i diritti umani e il bene comune, quando vivere diventa insopportabile e si chiudono i canali del dialogo, della comprensione, della razionalità, quando tutto questo avviene, allora la chiesa parla del legittimo diritto all’insurrezione”.
E poi, le frasi universalmente famose della sera precedente il tuo sacrificio:
“Mi rivolgo specialmente ai soldati… Fratelli… davanti all’ordine di uccidere, deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio… Quindi, in nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, vi supplico, vi prego, vi ordino: cessi la repressione!”.
Latinoamericani per scelta
Sono uscito sconvolto da quel povero palazzo. Conoscevo Romero ma, come dice Neruda, un’altra cosa è con chitarra. Guardandomi attorno, mi sembrò innegabile un verso di Rubén Blades; “Siamo una sola razza perché condividiamo un’unica luna, un ieri e una memoria”, Guardandomi attorno, mi accorsi ancora una volta che si tratta di una curiosa regione della terra. Particolare, come tutte. Differente da qualsiasi altra, come tutte. A partire dal nome, perché i latinoamericani si definiscono tali per scelta, anche per pura e semplice opposizione culturale ai Wasp statunitensi, non per ragioni etniche o linguistiche che sarebbero assai discutibili. Latinoamericani siamo tutti, quelli con gli occhi a mandorla e quelli che rispondono al prototipo immaginario di qualche provinciale europeo, quelli biondi e quelli neri, quelli degli altopiani, quelli mulatti, gli uomini del fiume e quelli dei canali vicini al Polo sud… E questo esserlo tutti non è solo una conseguenza, ma è anzitutto una scelta.
Ricordai la regione dove ho trascorso parte della mia infanzia.
Nella zona più meridionale del Cile, laddove secondo Magellano ogni sera si accendevano magicamente e contemporaneamente una infinità di fuochi e dove campeggia il trauco, il piccolo dio che secondo la tradizione locale si dedica a mettere incinte le ragazze vergini senza nemmeno risvegliarle; laddove mare e montagna – ma non di rado anche il cielo – pranzano assieme e dove tutto, quindi, diventa possibile, ricordo nitidamente che qualche notte d’inverno si sente urlare coralmente un ammonimento: “Chi non conosce la propria storia, è destinato a ripeterla”.
Sono certo che il peruviano Manuel Scorza avrebbe potuto spiegare assai meglio questo fenomeno rammentandoci la storia reale di “Garabombo, l´invisibile”. Molto più modestamente, senza neppure provare ad addentrarmi in cosmogonie, letture circolari della storia e altre complicate questioni, venendo fuori da quella chiesa mi sono detto che, seppur è vero che la politica può spiegare molte cose, non è affatto vero che può giustificare tutto. Che ha, dovrebbe avere, una dimensione etica.
Ricordai pure che, come sanno anche i bambini, il colonnello Aureliano Buendía, protagonista indiscusso dei primi Cent´anni di solitudine della Colombia e dell’America Latina, aveva combattuto 47 guerre civili e le aveva perse tutte. Che aveva avuto trenta figli maschi, tutti assassinati in una sola notte. Che aveva bevuto più volte delle dosi di stricnina in grado di ammazzare un cavallo, ma non aveva mai subito grandi conseguenze. Che era stato condannato quaranta volte alla fucilazione, ma era riuscito a salvarsi sempre, all’ultimo momento… Come tutti, anch’io so che, quella sera, ricordando la prima volta che “suo padre l’aveva portato a vedere l’ottava meraviglia dei savi alchimisti della Macedonia”, dove scoprì che “le cose hanno vita propria e si tratta soltanto di risvegliargli l’anima”, probabilmente pensò all’ennesimo plotone di esecuzione da affrontare il giorno dopo (“il martedì è una delle poche cose che arriva sempre”) e si rese conto che aveva perso tutto, salvo la voglia di battersi ancora e la convinzione che la prossima volta sarebbe potuta andare diversamente.
Il colonnello pensò cioè, o almeno così mi piace immaginarmelo, che la necessità di giustizia, anche quando è confusa, poco accademica, non politicamente corretta, non è mai il frutto – solo – dell’ostinata insistenza di qualche invecchiato e sorpassato reduce, di qualche idea che ha dormito male o dell’eccesso di farmaci e/o alcol. Che, viceversa, si tratta di un bisogno che percorre come una lama tagliente tutta la lunga storia degli uomini.
Credo che Aureliano vedrebbe questa necessità anche oggi, quando la mondializzazione degli scambi, della cultura e della delinquenza, sembra aver tolto ogni spazio all’immaginazione collettiva e ridotto la politica a pura dimensione contabile, a una gara sul “migliore amministratore del condominio”, che a me suona come la versione moderna del “mamma, sono arrivato uno”.
E penso che, forse, Aureliano ci avrebbe insinuato che se la trasformazione necessaria non può che venire dalla politica, quest’ultima non può essere assimilata soltanto – né fondamentalmente – alla fredda analisi della realtà, alla pura “scienza del possibile”, ma deve essere anche progetto, sogno, pulsione collettiva, capacità premonitrice e profetica in grado di diventare realtà.
Ci serve ricordarlo anche ora, quando un ministro della repubblica italiana è arrivato ad affermare che “bisogna cannoneggiare le navi che trasportano immigrati… Il terzo avviso deve essere bum bum” (il secondo dovrà essere “cin-cin”?)[3].
Assassinato per ordine dell’Impero
Ricordai anche che, poche ore dopo la tua uccisione, nell’Amazzonia brasiliana Dom Pedro Casaldaliga aveva scritto il primo poema dedicato a “San Romero delle Americhe”: “Povero pastore glorioso, assassinato per soldi, per dollari, per valuta, come Gesù per ordine dell’Impero”.
Ricordai che avevi appena finito l’omelia quando tuonò un fucile.
Ricordai che dopo i militari spararono contro la folla che assisteva alla tua messa funebre. Ricordai le cronache su quella messa, celebrata da trenta vescovi e trecento sacerdoti e seguita da duecentocinquantamila persone riunite nella vicina Plaza Libertad, e interrotta dalle bombe e dalle pallottole partite dal palazzo presidenziale.
Ricordai…
Ricordo che, anche per interrompere quel flusso sconvolgente di ricordi, sono andato al cimitero a trovarti.
Ricordo di avere incrociato un vecchio malvestito, che puliva la tua tomba con i resti di una manica della sua camicia.
Era ancora mattina presto.
Quando la tua lapide era diventata brillante gli ho chiesto:
“Ma, perché lo fai?”
“Perché era mio padre. Vedi, io sono solo un poveraccio. A volte lavoro nel mercato portando qualunque cosa su di una carriola non mia, altre volte chiedo l’elemosina.
E a volte mi spendo tutto in liquore e mi passo la notte buttato per strada …
Ma poi mi rianimo sempre, perché ho avuto un padre!
Un padre che mi ha fatto sentire persona.
Perché lui amava quelli come me e non gli facevamo schifo.
Perché ci parlava, ci toccava, ci faceva domande.
Perché si vedeva lontano un miglio che mi voleva bene.
Per questo gli pulisco la tomba. D’altronde, è quello che tocca fare ai figli”.
R.A. Rivas
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[1] Rodrigo A. Rivas, “Lettera a Monsignor Romero”, “l’altrapagina”, Città di Castello marzo 2005
[2] Roque Dalton García, “Poema de amor””, in “Poemas”, L’Avana 1968. Alcuni testi sono presenti in italiano in Roque Dalton, “La parola ferita. Poesie 1961-1975”, a cura del Laboratorio Babele, Datanews, Roma1991.
“Quelli che ampliarono il Canale di Panama
(e furono classificati come “silver roll” e non come “gold roll”),
quelli che ripararono la flotta del Pacifico
nelle basi della California,
quelli che marcirono nelle galere del Guatemala,
Messico, Honduras, Nicaragua,
perché ladri, contrabbandieri, truffatori,
morti di fame,
quelli sospettati sempre di tutto
( “mi permetto segnalarle il tale
poiché sfaccendato sospetto
con l’aggravante di essere salvadoregno”)
quelle che riempirono i bar e i bordelli
di tutti i porti e le capitali della zona
(“La gruta azul”, “El Calzoncito”, “ Happyland”),
i seminatori di mais in piena foresta straniera,
i re della pagina rossa,
quelli che nessuno sa mai di dove sono,
i migliori artigiani del mondo,
quelli che furono imbottiti di piombo attraversando la frontiera,
quelli che morirono di malaria
o del morso dello scorpione o del serpente barba amarilla
nell’inferno delle piantagioni di banane,
quelli che piangono ubriachi per l’inno nazionale
sotto il ciclone del Pacifico o la neve del nord,
i mezzadri non pagati, i mendicanti, i fumatori di marijuana,
i guanaco (salvadoregni) figli di puttana,
quelli che a stento riuscirono a tornare,
quelli che ebbero un po’ di fortuna in più,
gli eterni irregolari,
i faccio di tutto, i vendo di tutto, i mangio di tutto,
i primi a prendere il coltello,
i tristi più tristi del mondo,
i miei compatrioti,
i miei fratelli”.
[3] L’autore dell’onomatopeico bum-bum era l’allora segretario della Lega, Umberto Bossi. Curiosamente, oggi alcuni lo presentano come un moderato per contrapporlo a Matteo Salvini. Viceversa, Dio li crea e qualcun altro li mette assieme”.