Un 12 ottobre qualsiasi, facendo finta che 526 anni siano nulla

Un 12 ottobre qualsiasi, facendo finta che 526 anni siano nulla

Calendario Azteca. Foto Kim Alaniz

“Siamo venuti qui per servire a Dio e al Re, e anche per diventare ricchi”.
Bernal Díaz del Castillo, cronista della spedizione di Hernán Cortés
“Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva España”, 1632

“Riusciremo a sterminare gli indigeni?
Verso i selvaggi di America sento una invincibile e irrimediabile ripugnanza.
Quella canaglia non è altro che pochi indigeni schifosi
che spedirei subito alla forca se ricomparissero
[…]
Vanno sterminati senza neppure perdonare i piccoli,
che possiedono già l’odio istintivo verso l’uomo civilizzato”.
Domingo Faustino Sarmiento, Presidente dell’ Argentina (1868-1874),
“El Nacional”, Buenos Aires 25/11/1876

“Oltre ai problemi specifici, i popoli indigeni abbiamo in comune
con altre classi e ceti popolari molti problemi:
povertà, emarginazione, discriminazione, oppressione, sfruttamento,
tutte prodotte dal dominio neocoloniale dell’imperialismo
e dalle classi dominanti di ogni paese”.
Dichiarazione del Vertice indigeno di Quito, 1992

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Dedico queste righe agli amerindi, in genere “signori nessuno” e al teosinte, la pianta selvatica dalla quale i contadini messicani derivarono il mais oltre 7.000 anni fa.

Tutti sanno che il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo “scopriva” le “Indie occidentali”, continente che i più chiamano America e alcuni amerindi chiamano Abya Yala.

Tutti dovremmo sapere:

a) che il “Terra alla vista” lanciato da Rodrigo de Triana all’alba di 526 anni fa, cambiò drammaticamente il corso della storia mettendo le fondamenta al mondo odierno, iniziando il processo di globalizzazione e portando alla fine accelerata delle civiltà americane originarie.

b) che la “scoperta” inaugura lo scenario di universalizzazione della cultura dell’impero allora dominante, come faranno cinque secoli dopo le tecnologie della comunicazione che hanno trasformato il pianeta in villaggio globale.

c) che nel XVI secolo, l’impero dominante era l’incipiente – ma sempre brutale – capitalismo europeo, in questo caso rappresentato dalla Spagna.

d) che lo sbarco e la successiva conquista militare da parte degli europei hanno alimentato l’espansione del capitalismo e delle sue ancelle: il “modello di vita occidentale”, la “libera impresa”, “l’economia di mercato”.

Storicamente, questo scontro di civiltà è avvenuto nel segno di un rapporto radicalmente disuguale in campo militare che ha prodotto il dominio sanguinario di una sulle altre. Si trattò di un’occupazione militare seguita da un vassallaggio culturale. E poiché ci furono vincitori e vinti, la stessa idea di “incontro” non è debole o ingenua, bensì ipocrita.

Il 12 ottobre 1492 segna l’irruzione violenta dell’avidità europea (capitalista) nel mondo, avidità che con il concorso determinante delle chiese cristiane (anche del protestantesimo, off course) elimina ogni forma di resistenza e impone la sua cultura, definita a priori come la sola valida e legittima, sinonimo de “la civiltà”, e condanna qualsiasi altra forma di organizzazione o di espressione allo stato di barbarie.

Perché lo scontro iniziato in quel lontano 1492 fu vinto da coloro che possedevano la più sviluppata tecnologia militare, nel 2018 nulla di fondamentale è stato modificato nel rapporto che ne derivò.

Certo, essendo passati dal binomio spada/croce a quello dipendenza tecnologica/impagabili debiti esteri, si può dire che le popolazioni sottomesse riescono spesso a vivere più a lungo.

A qualcuno sembra persino che soltanto la Grecia allarghi la geografia della servitù alle popolazioni dei paesi arricchiti. È ovviamente un falso, ma ci torneremo in un’altra occasione.

Dopo 526 anni, nessun abitante originario del continente americano si sente “scoperto” e il 12 ottobre ricorda solo una storia forgiata a sangue e fuoco, una ferita aperta e un debito insoluto. La novità è che ai popoli orinari si sono sommati molti emigrati. Resta la domanda: chi pagherà questo debito? E prima, è possibile pagarlo?

La saggezza di un proverbio africano afferma che, “fino a quando i leoni non scriveranno i loro libri di storia, i cacciatori saranno sempre gli eroi”. Infatti, è solo perché la storia la scrivono i vincitori, che anche questo scontro tra civiltà – tradotto in genocidio – ha potuto raccontarsi come una “impresa gloriosa”. Lo vedono diversamente i popoli americani e quelli africani, trapiantati più tardi nel continente “scoperto” come manodopera schiava, condizione in cui resteranno per secoli.

Ricordare la storia è sempre utile per non essere condannati a ripeterla, ma non basta, perché le conseguenze si dilungano nel tempo e nello spazio. Come accadde in altre latitudini verso altri “liberatori” (magari arrivati nella capitale nei dintorni del 1944), molti latinoamericani hanno ancora un “complesso de inferiorità” che si manifesta nei modi più diversi della vita comune.

Ad esempio, è frequente vedere improbabili tinture bionde o verificare che ogni programma culturale radiofonico o televisivo impiega solo la cosiddetta “musica classica”, ovvero la musica accademica europea dei secoli XVII, XVIII o XIX. Avviene pur se, come canta Francesco di Gregori, ci sono pure bellissimi capelli neri e, aggiungo io, esiste un’ottima musica colta latino-americana (oltre ad un’ampia e ricca musica popolare).

Altrettanto comunemente accade che organizzare una cena di lusso significhi aragosta (comunque prodotto locale) o qualche portata dal complicato nome francese (senza neppure sapere bene cosa sia), e mai arepa, humita, gallo pinto, asado al palo, curanto, cebiche…

Che per l’uomo vestito siano d’obbligo la giacca e quella ridicola appendice chiamata cravatta, e per la donna i tacchi a spillo, tanti gioielli e molto profumo (invenzione destinata a nascondere i cattivi odori, assai più frequenti tra popoli poco abituati alla igiene, il che non è il caso degli amerindi).

El mirador, piramide La Dalta, Guatemala

Il cattivo gusto – l’inferiorità culturale – del presidente boliviano Evo Morales, è ad esempio dimostrato dai suoi orrendi pullover e dalle sue giacche altrettanto coloratissime. Andrebbero bene se ad accoppiarle fosse un Missoni qualsiasi che, non a caso, ha fatto la sua fortuna rubando a pieni mani nei colori e disegni dei maya.

Che i palazzi di governo, anche quando circondati da palme e sommersi da un pesante sole tropicale, abbiano colonne ioniche/doriche e ampie scale di marmo come quelle degli “uomini bianchi”. Che per essere “à la page”, i giovani cantino solo in inglese (anche perché nessuno saprebbe cantare in maya, guarani o mapuche e nessun mercato accetta volentieri altre lingue), che a dicembre i mall (da questa parte chiamati con l’italianissimo nome di shopping center) si riempiano di pini plastici (il che non avviene in Svizzera perché gli svizzeri, rispettosi dell’ambiente, comprano gli abeti naturali ai barbari italiani di Milano e dintorni) e di neve artificiale, e assistono alle esibizioni di un vecchio barbuto vestito color coca cola che ride senza motivi noti e viaggia in una slitta trainata da renne, in pendant con l’abbondante neve dei Caraibi.

Accade persino che, per pensare a piramidi favolose, sia d’obbligo pensare all’Egitto.

Nulla ho contro la grande sapienza dei costruttori dell’Antico Egitto, ma nel Centroamerica ce ne sono di altrettanto fantastiche come El Mirador, nell’attuale Guatemala, la più grande del mondo.

Per non dilungarmi ulteriormente, con tono sommesso e politicamente corretto ricordo che la civiltà maya arrivò a concepire lo zero oltre mille anni fa, proprio quando l’Europa si dedicava con entusiasmo a perseguitare l’autonomia delle donne accusandole di stregonerie per poter maltrattarle impunemente e per mandarle a casa garantendosi la riproduzione della manodopera a bassi costi.

Il presidente della Bolivia Evo Morales, al centro, assiste al rituale dell’arrivo del Nuovo Anno 5519 della cultura aymara nelle rovine di Tiwanaku, Bolivia, martedì 21 giugno 2011. (AP Photo/Juan Karita

Ciò mi pone una questione ulteriore: perché il non “civilizzato” era il versante latino-americano del rapporto? È solo confusione terminologica?

I pervertiti che, come me, s’interessano al calcio, ricorderanno che un affermato conduttore della RAI dalla brillante testa (non è politicamente corretto chiamarlo “pelato”), prima dell’incontro Italia-Costa Rica del mondiale di calcio in Brasile (2014), affermò impunemente: “Ma perché dovremmo preoccuparci? Noi siamo l’Italia, loro non sono un cazzo”.

Capisco: non si era in fascia protetta e si trattava solo di una dotta citazione tratta dal “Marchese del Grillo”. Comunque, per la cronaca, il Costa Rica vinse quella partita.

Ma se il calcio è roba da pervertiti, l’economia e la pace non dovrebbero esserlo.

Infatti, a Stoccolma, una celeberrima istituzione bianca ha assegnato il Nobel per la pace a Barack Obama nel 2015 come aveva fatto molto prima (1974), con un indiscusso criminale seriale, Henry Kissinger. E, pochi giorni fa, il cosiddetto Nobel per l’economia (assegnato dalla “Banca di Svezia”, Sveriges Riksbank), è andato a due economisti che si sono occupati anche di ambiente.

A quest’ultima assegnazione è seguita un’enorme e interessata confusione: per la RAI e le sue sorelle dimostra che le scienze economiche convenzionali hanno ormai incorporato le problematiche ambientali. Si tratta, dissero, di una profonda innovazione del concetto di sviluppo.

È un’affermazione falsa, ignorante e in malafede. Poiché, viceversa, l’assegnazione del Nobel per l’economia 2018 rinforza sia il mito della crescita economica quale meta dello sviluppo, sia la fede neoliberista, ovvero l’infondata credenza che la crisi economica si risolverà all’interno del mercato e del capitalismo.

I contributi dello statunitense William D. Nordhaus riguardano l’economia del cambiamento climatico. Quelli di Paul M. Romer il ruolo delle innovazioni tecnologiche nella crescita economica.

Nordhaus è considerato un pioniere delle analisi economiche sul cambiamento climatico, avendo concepito le procedure note come “modelli integrati di valutazione” per calcolare il “costo sociale” delle emissioni inquinanti di carbone. La sua soluzione per frenare il riscaldamento globale consiste nella proposta di una modestissima tassa. Romer si è dedicato a propagandare l’importanza della conoscenza e delle tecnologie per promuovere la crescita economica.

Detto in altre parole, i due hanno contribuito ad un ulteriore allargamento dei mercati: uno collocandone i gas serra ed il clima globale all’interno, l’altro le idee e l’innovazione. Insomma, sono due uomini di fede, preti della religione liberista.

Infatti, secondo Nordhaus la crisi climatica si può risolvere tassando i gas serra senza cambiare nulla riguardo i tipi di produzione, di commercio e di consumo. Ovvero, “crede” che bastino degli aggiustamenti strumentali per risolvere il problema. Essendo un militante della “economia ambientale”, afferma che è possibile dare un “prezzo” agli elementi e/o processi della natura. Questa onnipotenza, affermano con ragionamenti e dati gli “economisti ecologici” ed altri scienziati, è quanto meno incerta.

Romer ha ridato potenza all’idea della crescita economica perpetua, pretendendo che le idee possano alimentarla in eterno. Dalla sua prospettiva, non interessa se scompaiono gli idrocarburi, l’acqua, le foreste o i minerali. Nella sua idea di “sviluppo endogeno” le economie potranno comunque crescere grazie a nuove idee, invenzioni e tecnologie.

Ce ne vuole di fede. Fede che tra altre piccolezze dimentica che quei saperi sono monopolizzati, brevettati e controllati dal nord globale.

Ovvero, in soldoni il Nobel è andato a modellizzazioni matematiche indipendentemente dalla loro aderenza al mondo reale ed ai suoi drammi. Inoltre, Romer, non a caso funzionario della Banca Mondiale, è pure uno degli ideatori delle cosiddette “città charter”. Il progetto consiste nella cessione di sovranità di una o più città a una o più nazioni sviluppate per “cogestirle”, un comodato urbano che rappresenta solo una formula per la dissoluzione delle sovranità nazionali allo scopo esclusivo di favorire la globalizzazione.

Insomma, il Nobel di economia 2018 ha premiato, come quasi sempre, degli economisti che credono che il loro compito sia produrre modelli matematici e dei banchieri che li utilizzano per mantenere le strategie convenzionali che aumentano la loro presa sul mondo.

La digressione non casuale si lega alla preponderanza della colonialità dei saperi ancora regnante. Ma torniamo più direttamente a noi: dallo sbarco e successiva occupazione militare delle Americhe sono passati 526 anni. Questo momento inaugurale del capitalismo è fondamentale per capire perché oggi abbiamo un Nord sviluppato e opulento e un Sud che si arrabatta nella povertà e dipendenza (e anche per capire fenomeni così diversi come la diffusione delle religioni o del calcio).

Il mondo è certamente cambiato ma la ruota della storia ha continuato a girare con invidiabile continuità: nessun beneficio ne è mai derivato per le grandi civiltà arcaiche (inca, azteca, maya in America Latina). Ma, come aveva già indicato Marx, senza quell’accumulazione originaria il capitalismo europeo sarebbe stato impossibile.

526 anni dopo, sempre folle ignoranti e addomesticate insistono a chiamare i popoli americani “precolombiani”. Nella loro non beata ignoranza presumono che prima di Colombo e dell’occupazione militare europea non esistevano né popoli né storia. D’altronde, lo teorizzò a suo tempo un gigante del pensiero come Friedrich Hegel, per il quale “lo spirito” si era manifestato solo in Europa. Essendo Hegel, probabilmente nessuno gli chiese allora cosa volesse dire e tutti glissarono sulla seconda parte della sua affermazione: i veri europei erano quelli tedeschi, i “proprietari dello spirito”. Certo, ciò ricordando non intendo stabilire un rapporto diretto tra il filosofo Hegel e il caporale Hitler.

Rappresentazione di Rodrigo de Triana nel Molo de las Carabelas, en Palos de la Frontera, Huelva. ©Edward the Confessor

526 anni dopo gli amerindi ancora non si recuperano totalmente del trauma che li fece passare dall’essere grandi civiltà, tanto o più sviluppate delle contemporanee società europee, a manodopera semi schiava costretta a perdere la propria storia e cultura, destinata secola seculorum a ruoli subalterni e malpagati, perenne passeggera del lungo deserto che Garcia Marquez ha retoricamente addolcito limitandolo ad appena “cent’anni di solitudine”.

Prodotto dei vincenti, la storia ufficiale ha provato a cancellare quelle grandi culture trasformandone le popolazioni in cittadini di seconda classe di paesi inventati per garantire il dominio delle elite locali. Così i quechua sono diventati peruviani, i maya guatemaltechi, gli aymara boliviani, gli aztechi messicani, i guaranì paraguaiani, i charrua uruguaiani, i mapuche cileni.

Mai potranno essere risarcite le terre saccheggiate, le risorse rubate e spedite in Spagna per arricchire l’emergente industria europea, i milioni di amerindi e neri ammazzati, l’umiliazione alla quale sono stati sottoposti tutti i popoli americani, il ritardo e la prostrazione economica alle quali sono stati tutti condannati e della quale tentano ancora di liberarsi.

Nessuno potrà pagare un tale debito poiché le “colte, civilissime e unte dallo spirito” classi dirigenti bianche, hanno sperperato tutto quanto hanno rapinato, fuori e anche dentro i loro paesi. Naturalmente, ciò non impedisce che continuino a saccheggiare senza ritegno.

Seguendo la strategia del colibrì che portava alcune gocce d’acqua nel becco per spegnere l’incendio della foresta, penso che si potrebbe dichiarare il 12 ottobre “giorno della vergogna umana”. Vergogna del genere umano perché la conquista eliminò, in poco più di 50 anni, tre quarti della popolazione originaria; trapiantò in condizioni inumane buona parte della popolazione africana (30 milioni, secondo Basil Davidson), condannata a vivere non più di 30 anni perché dopo diventavano meno produttivi secondo quanto stabiliva il codice civile brasiliano; portò milioni di poveri asiatici e di poveri europei a costruire ferrovie e strade in mezzo a pantani e foreste ed a reinventarsi contadini per occupare le terre vergini (di uomini bianchi).

Vergogna non solo riguardo la storia, perché sono stati costretti ad essere i primi a sperimentare l’inumano progetto noto come neoliberismo – anche in questo caso imposto a sangue e fuoco.

Certo, sono stati pure i primi a ribellarsi, ridando dignità a processi di trasformazione radicale che dimostrano che i popoli non sono condannati a perdere sempre ma qualche volta vincono, pur se ogni vittoria è difficile e non garantita.

Certo, oggi tutto il continente sembra indirizzarsi di nuovo verso forme di fascismo, questa volta scelte. Come sempre, i primi a pagarne le conseguenze saranno i poveri tra cui, come sempre, predominano gli indigeni, i neri, le donne, i giovani.

A ritmo di salsa, il panamense Rubén Blades canta che i latinoamericani sono tali perché condividono lo stesso sogno e la stessa luna. Mi sembra un progetto ambiziosamente universale e, perché malgrado tutto i latinoamericani esistono e continuano a coltivare speranze, penso che dedicare ai loro popoli la giornata della vergogna umana non sia esagerato.

R.A. Rivas,

Città di Castello, ottobre 2018

 

 

Rodrigo Andrea Rivas

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