I fatti e le parole. La letteratura del potere all’arrembaggio
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“Ma, vinceremo babbo?”
”Certo che sì, figliolo. E tutto sarà terminato mentre sarai ancora a letto.”
”Perché?”
”Perché in caso contrario, gli elettori del signor Bush diventeranno molto impazientie dopo tutto potrebbero decidere di non tornare a votarlo.”
”E uccideranno molta gente, babbo?”
”Nessuno che tu conosca, tesoro. Solo stranieri.”
John Le Carré[1]
Osservando le povere immagini dello stitico dibattito italiano sull’immigrazione, mi è venuto in mente che nei tempi antichi nessuna forma di feticismo è stata mai esente da una narrazione che lo percorresse dalla testa ai piedi, ma, anche, che nella definizione del feticismo stesso l’immagine occupava il ruolo centrale.
Come si sa, in seguito questa gerarchia è stata invertita dal mito. Basta infatti dare un’occhiata a qualsiasi mito greco per verificare che la parola è stata messa al centro, e le immagini sono state trasformate in semplici derivazioni della parola stessa (sono le parole a descriverci il Minotauro, Hermes, l’Olimpo e Zeus, prima delle loro rappresentazioni artistiche).
E sappiamo che solo molto più tardi la scrittura ha rotto la forma circolare ed eterna del mito, creando la percezione lineare della storia, caratterizzata da un inizio e una fine e costruita da infinite singolarità.
Nella Bibbia, come in molti altri scritti sacri, il principio e la fine del tempo sono drammatici. Ma diversamente da quanto accadde nel mito, né la creazione né la distruzione si ripetono.
Il Dio e gli dei che hanno vissuto nel neolitico hanno scelto la parola e maledetto le immagini. Le immagini sono ritornate, in qualche modo, assieme al feticismo o l’iconolatria, tanto cattolica come delle altre religioni.
Nel XX secolo il feticismo laico ha conosciuto un ritorno spettacolare, ma il ricorso al mito non ha ceduto il suo spazio centrale. Anzi, i discorsi sul dominio dell’immagine sono esattamente questo, discorsi e/o narrazioni che creano e ricreano la nuova realtà definita dalle parole.
La classe dominante, politica e finanziaria, è stata educata in università dove la parola è principio e fine di ogni discorso, l’alfa e l’omega. I consumatori delle classi operaie, che raramente accedono a questi circoli di potere, sono invece molto più esposti alla logica dell’immagine, alla pubblicità.
Ma, poiché pure la pubblicità e la propaganda sono il risultato di una cultura, di una critica e di una tecnica di produzione, sono anche queste governate dalla parola. Accade persino nelle fotografie dei manifesti e negli avvisi commerciali con immagini mute: a dare senso e significato al caos feticista è il riferimento a una storia nota. È lei, la storia nota, a dirci che X è meglio dei suoi avversari. Nella pubblicità poi, il senso è sempre lo stesso: continuate a consumare, deodoranti, macchine e presidenti.
L’immagine di un bombardamento fa allusione ad una guerra. Per noi quell’immagine è il fatto e quella guerra è la realtà. Ma quel frammento acquista significato, diventa un fatto, grazie al racconto del giornalista, che in un senso superiore serve a giustificare, a condannare o a nascondere un’azione politica.
Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2002 in base ad una serie di motivazioni che, successivamente, sono risultate indiscutibilmente false, molti giornali pubblicarono immagini di bambini morti, fatti a pezzi dai bombardamenti. Nulla, o quasi nulla, interessò di quelle immagini. A nessuno, o quasi a nessuno.
Detto in altro modo: finché non c’è il pieno riconoscimento di un errore, l’errore non esiste. E, per non essere costretti a riconoscere l’errore, per negoziare la verosimiglianza della nuova narrazione, la cosa migliore da fare è procedere a riconoscimenti parziali, a registrare piccoli insuccessi.Ad esempio, quando tutte le catene televisive, dalla Fox News alla BBC, dalla RAI a TV Globo, ripetevano senza nemmeno prendersi una pausa per respirare gli argomenti del governo di George Bush per invadere l’Iraq, una schiacciante maggioranza della popolazione degli Stati Uniti e dell’Europa (80 e 90% rispettivamente, secondo le varie inchieste) ha creduto effettivamente alla verità di quegli argomenti e la guerra è diventata realtà. Soltanto più tardi, quando non si è potuto continuare a sostenere questa narrazione, non soltanto per i fatti, ma anche in virtù di una narrazione contraria appoggiata sia sui fatti che sull’emergenza crescente di un potere contestatario, il governo ha dovuto modificare il suo racconto per suturare la frattura precedente.
Fatti, non parole
I sogni e gli incubi sono fatti della stessa materia,
ma questo incubo dice di essere il nostro unico sogno perverso:
un modello di vita che disprezza la vita e adora le cose
Eduardo Galeano[2]
Quando don Chisciotte è il re, i giganti cattivi sono distrutti dai cannoni, e il delirante Sancho Panza, che protesta perché non ci sono giganti morti ma mugnai a pezzi tra le macerie, è neutralizzato dalla parlantina realistica e responsabile di don Chisciotte re.
Il potere segreto della parola, del discorso egemonico, radica proprio nel dichiarare l’importanza indiscutibile dei fatti. Ma i fatti non sono costruiti dai fatti. Sono le parole a costruire i fatti.
Le immagini – sostitute e ancelle dei fatti – possono essere curate persino nei minimi dettagli, ma nulla importano di fronte al potere della narrazione (“la pistola fumante” di Colin Powell, ad esempio, come “l’evidente inferiorità del genere femminile” o la correlata “presenza dominante del maligno” in un’altra epoca e/o un altro contesto).
Se si pensa, ad esempio, alla recente celebrazione della Festa della Repubblica Italiana, ci si accorge che il potere delle cerimonie celebrative non deriva dalle immagini proposte (anche perché, in senso stretto, la squadriglia aeronautica o la parata militare non hanno alcuna parentela con l’evento celebrato), bensì dal fatto che, scrivendo un piccolo capitolo del grande romanzo, confermano il filo conduttore della narrazione. Si parla de “I nostri eroi” o del “Piave che mormora non passa lo straniero”. In occasioni simili per maestosità, marines statunitensi e granatieri svizzeri garantiranno di essere “Semper fidelis” o alcuni nostalgici, di cui mi onoro di far parte, canteranno “No pasarán” o “El pueblo unido jamás será vencido”. Eccetera.
A nessuno importa se quel “soldato sconosciuto” richiamato dalle parole celebrative è morto per la libertà di un popolo, al servizio di una dittatura bananiera o al soldo di un impero aggressore. La sola cosa che veramente importa è l’abilità letteraria del potere per integrare quel soldato alla propria finzione.
Il potere, diversamente dai nostalgici, non lo fa solo per scrivere e confermare una storia. Lo fa, soprattutto, sia per consolidare un presente e un futuro conveniente con più soldati sconosciuti vogliosi di dare la loro vita per la stessa narrazione, sia per trasformare ogni possibile critica o messa in questione del suo potere in una proposta immorale (“appoggiate i terroristi”, “non avete a cuore gli interessi superiori dell’Italia”, “non sono profughi, ma semplicemente poveri attirati dal nostro benessere” ecc.).
Aruspici auscultano i fondi di caffè
“Dal 2000 fino ad oggi, la crescita annuale è stata del 3,2% pro capite,
ma proprio in questo momento,
l’economia mondiale attraversa il migliore decennio della sua storia.
Infatti, se continuerà a mantenere questo ritmo,
questa decade la crescita supererà quella raggiunta nei decenni ’60 e ’70,
da tutti considerati idilliaci.
Si deve concludere che, evidentemente, il capitalismo di mercato,
ossia il motore che spinge la maggior parte dell’economia mondiale,
assolve bene la sua funzione”.
Alan Greenspan[3]
La frase “un’immagine vale più di mille parole”, è solo un’altra maschera riciclata dalla narrazione idiomatica lessicale. I fatti, gli ordinamenti politici nazionali e mondiali, non si mantengono grazie a immagini che possono essere favorevoli o avverse ai principali poteri. Si mantengono per ciò che di quelle immagini si dice.
Vedendo, leggendo e ascoltando i media del mondo, si può notare facilmente che le immagini dell’oppressione e della guerra, persino quelle più crudeli, possono indignare molta gente ma sono velocemente assorbite e neutralizzate dal racconto idiomatico lessicale che agisce sotto forma di giustificazione, oppure trasforma un’invasione e un massacro in un legittimo atto di difesa della pace.
Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2002 in base ad una serie di motivazioni che, successivamente, sono risultate indiscutibilmente false, molti giornali pubblicarono immagini di bambini morti, fatti a pezzi dai bombardamenti. Nulla, o quasi nulla, interessò di quelle immagini. A nessuno, o quasi a nessuno.
Avviene lo stesso in qualsiasi altro conflitto mondiale nel quale un gran esercito si scontra con un esercito irregolare o con la popolazione civile. Non interessa da quale parte siano la ragione e la giustizia. Il vero campo di battaglia è il campo dialettico, e soprattutto, quello narrativo. È lì dove nasce o si legalizza tutta la violenza. Al potere di turno non interessa nemmeno la dialettica, la logica del discorso capace di giustificare una determinata azione militare. Ciò che gli interessa è la verbalizzazione fratturata e ripetuta di una verità costruita all’uopo.
Come a dire:
“Lo scopo dei nostri attacchi non è la popolazione civile (A) ma i terroristi (B)”.
“Ma nell’attacco a B muoiono centinaia, migliaia di A”.
“Non è importante. Lo scopo è B”.
Le foto degli A agonizzanti – donne, bambini e uomini che siano – non sono importanti perché la verbalizzazione della realtà è più forte:
“Lo scopo è B”.
“È uno scopo nobile, giustificabile. Stanarli è la nostra verità vera …”
“Lo scopo è B, punto e a capo”.
Avviene in diversi contesti geografici e situazioni. Ad esempio, agli inizi del 2009 in due occasioni l’esercito israeliano ha bombardato rifugi dell’ONU. La prima volta il governo israeliano dichiarò che si era trattato di un tragico errore. E tutti accettarono la spiegazione. Dopo tutto, i buoni sbagliano. Sono i cattivi a non sbagliare mai e ad essere sempre più efficienti.
Qualunque sia la risposta, se è completa – a full explanation – sarà sempre considerata sufficiente. Anche se si tratterà di una risposta fotocopiata, una copy and paste, scelta tra quelle tante risposte che appoggiano una misura di forza. E sarà comunque criticata da chi vi si oppone.
Qualunque sia la risposta, se è completa – a full explanation – sarà sempre considerata sufficiente. Anche se si tratterà di una risposta fotocopiata, una copy and paste, scelta tra quelle tante risposte che appoggiano una misura di forza. E sarà comunque criticata da chi vi si oppone.Dopo il secondo bombardamento, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite ha dichiarato: “We demand a full explanation” (16 gennaio 2009). Voleva dire che le nazioni del mondo da lui rappresentate esigevano un racconto completo, di maggiore qualità letteraria.
La critica, la letteratura sovversiva, non avrà effetto sulla realtà, almeno non nell’immediato. E non l’avrà poiché l’immagine, il fatto, è totalmente subordinata al racconto del potere, al genio incomparabile della letteratura politica.
Inventori dell’acqua calda
Zigong: “Cos’è governare”?
Il Maestro: “E’ garantire che la popolazione abbia abbastanza cibo,
abbastanza armi, e garantirsi la sua fiducia.”
Zigong: “E se ci fosse bisogno di fare a meno di una tra queste tre cose,
quale sarebbe?”
Il Maestro: “Le armi”
Zigong: “E tra le altre due, quale sarebbe”?
Il maestro: “Il cibo. Dagli inizi dei tempi, gli uomini sono soggetti alla morte.
Ma un popolo che non ha fiducia non sarebbe in grado di sopportarla”.
Confucio[4]
L’autore è la autorità, l’autore è il potere e, alla fine dei conti, il potere è sempre l’autore.
Come Dio, anche il potere crea il suo mondo a partire dal verbo.
Recita il prologo del “Vangelo di San Giovanni”: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”.
Tuttavia, penso che tra il nostro autore e il Padre eterno ci siano due differenze non piccole.
La prima è che il potere, il nostro autore, non può creare materialmente il mondo ma può solo creare (divagare) il “suo” mondo.
La seconda è che, diversamente da Dio, il nostro autore può solo distruggere il mondo degli altri, quello teoricamente nostro. Può farlo, ad esempio, se il mondo non segue la sua parola.
Un miscredente, come John Le Carré, ci proporrebbe un’alternativa, come fa nella continuazione del brano citato in epigrafe:
“Dio ha delle opinioni politiche particolarissime.
Dio ha scelto gli Stati Uniti per salvare il mondo nella forma che più convenga agli Stati Uniti.
Dio ha scelto Israele come braccio della politica nordamericana nel Vicino Oriente.
Chi voglia mettere in dubbio queste idee:
- a) è un antisemita,
- b) è un antiamericano,
- c) si è alleato col nemico e
- d) è un terrorista.
Oltre alle idee, sembra che Dio abbia stretto pure dei rapporti terrificanti”.
Si chiedeva Gramsci: “Ma l’umanità, come realtà e come idea, è un punto di partenza o un punto di arrivo?”[5]
Risponde Jorge Luis Borges: “Arriviamo così alla terribile domanda: l’universo, la nostra vita, appartengono al genere realista o al genere fantastico?”[6]
R. A. Rivas
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[1] John Le Carré, “Confesiones de un terrorista”, “El Pais”, Madrid 20 gennaio 2003. Consultabile in https://elpais.com/diario/2003/01/20/internacional/1043017204_850215.html
[2] Eduardo Galeano, “Ser como ellos”, Siglo XXI Argentina, Buenos Aires 1993.
[3] Alan Greenspan, “The Age of Turbulence: Adventures in a New World”, Penguin Press New York 2007. Per la cronaca: nel 2007 Greenspan era il capo della Banca centrale degli Stati Uniti (Federal Reserve, FED). Nel 2008 aveva inizio la maggiore crisi economica del secondo dopoguerra, ancora in corso.
[4] Confucio, “Entretiens de Confucius”, Le Seuil, Parigi 1981. Il testo risale al 740 a.C.
[5] Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Quaderno XXX” (1934), “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”, Editori Riuniti, Roma 1991.
[6] Miguel Blumenbach “Jorge Luis Borges: La literatura fantástica”, 7 aprile 1967, inaugurazione del ciclo culturale della Scuola Camillo e Adriano Olivetti, Castiglia, Spagna. Consultabile in borgestodoelanio.blogspot.com/2015/10/jorge-luis-borges-la-literatura.html